Un teatro formicolante a Broadway. Lì fervono i preparativi per l’allestimento di un lavoro di Carver intitolato “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”. Tutto gira intorno a Riggan, che, dopo una trionfale carriera come Birdman, supereroe con forma di uccello dotato di superpoteri ed adorato da un pubblico che non si fa troppe domande, intende organizzare uno spettacolo dal vivo per dimostrare al mondo di essere se stesso e non solo una maschera volante ed un prodotto digitale, di recitare esponendo le proprie rughe di sessantenne e mettendo il gioco le proprie capacità di vero attore; ma soprattutto, davanti ad un pubblico presente in sala, di essere meritevole di apprezzamento ed amore, quell’amore sulla cui essenza si sviluppano le prove della recita in fase di messa in scena.
Riggan è duale, ma la sua dualità è dicotomica, il prima e l’adesso sono in conflitto continuo. La voce del personaggio che fu lo tormenta, richiamandolo ai vecchi e gloriosi trionfi che gli diedero fama e che lui ha rifiutato per essere finalmente, e non più per apparire. I suoi immaginari poteri magici, residuo del suo alter ego, sono il ricordo vischioso di un passato che è duro da cancellare e che alimenta la scissione e rende turbolento il passaggio alla nuova identità.
Il teatro è il luogo in cui si incrociano vite, in un turbinio di storie, rapporti, esplosioni emotive, motivazioni, liti; attori, produttori, amanti, ex mogli, figli convivono o si intersecano negli spazi articolati, angusti, in un caotico susseguirsi di “gesta” personali o relazionali, per tutto convergere verso la rappresentazione corale sul palco in vista delle anteprime, che costituiscono il banco di prova degli umori del pubblico, e poi del grande esordio.
Ma il teatro è anche il luogo della mente: corridoi stretti, camerini arredati in modo eterogeneo come le diverse celle dell’io, luci artificiali dei riflettori ed ombre o semiombre, terrazze ariose, il tutto tra marosi e bonacce di un divenire sregolato che riflette la irrazionalità e il disordine del pensiero frastagliato in mille tonalità espressive.
Riggan si dibatte tra le sue ossessioni in una dimensione di realtà/visioni/sogno che lo spinge a navigare a vista, e le anteprime sono le tappe attraverso cui –in una sorta di identificazione tra vita e rappresentazione- cerca disperatamente di vincere la sua guerra interiore, di dare un senso alla sua pluridentità ancora sgangherata, di fluidificare i rapporti con coloro con cui, nello spazio limitato del teatro, è costretto ad interagire mettendo in gioco il proprio essere in fieri, di districare e ricomporre i fili annodati da un vissuto complicato, di trovare una soluzione, costi quel che costi, che lo orienti a diventare artefice consapevole e libero delle proprie scelte.
Durante questo percorso di purificazione da un passato opprimente, Riggan si confronta in relazioni che contano, in particolare con un attore ai suoi antipodi quanto a visione di vita ed a modo di recitare: freddo, distaccato, disincantato nella vita, sanguigno, impetuoso, incontrollato sul palco. Lezione che Riggan, nonostante il rapporto conflittuale, in qualche modo fa sua affinando e poi estremizzando il suo ruolo nella prima rappresentazione. Dopo il ritrovato successo, ed aver domato ed umiliato l’avversario piumato ormai senza reazione, si appresta a volare di nuovo, senza più remore, senza tentazioni isteriche, senza vincoli che non siano la libera volontà di risolversi. Senza più sogni.
Il messicano Inarritu, che già aveva sperimentato lo schema narrativo dell’incrocio o del parallelismo di storie diverse, lo riprende comprimendolo in uno spazio come il teatro, simbolo di fantasia, finzione, visionarietà oltre che di offerta e domanda di arte, spingendo i personaggi a interagire –a differenza che in Babel- in distanze ridotte, il che stimola prossemicamente reazioni talvolta imprevedibili e comunque estemporanee e spinge saltuariamente i personaggi ad uscire dallo spazio chiuso (in strada o in terrazza) per ritrovare l’aria ed i suoni di una normale quotidianità. Il regista riprende le vite in teatro da tutte le angolazioni, utilizzando la colonna sonora di una batteria, dove tempi e cadenze, rullanti e piatti sottolineano in perfetta alternanza umori e stati d’animo. Il tempo, scandito elasticamente tra vorticosi conflitti e lunghi fermi di azione (come il prolungato piano sequenza del corridoio, in attesa delle reazioni sonore del pubblico dopo la fine della prima), è una dimensione percettivamente variabile, ma scorre inesorabilmente (come i tic tac che talora insinuandosi nel sonoro, sembrano ricordare) spingendo verso una definizione finale dell’irrisolto.
Il film è una potente denuncia dello scontro di culture abissalmente lontane e di poteri inarrestabili: quello della produzione hollywoodiana dei film “virtuali”usa e getta che non lasciano scia, ma di cui il sistema di propaganda costruisce una sterile memoria: quello dei social network, che ti misurano in base al numero di visualizzazioni (“Che ti piaccia o no, questo è potere” dice la figlia mostrando il video della maratona di Riggan, costretto suo malgrado ad una maratona in mutande per le strade della città), il potere dei guru della critica cinematografica spocchiosi e narcisisti, capaci di stroncare un’opera senza averla prima visionata. Ma è anche la conferma del leit-motiv caro a Inarritu, cioè il senso di difficoltà della esistenza nel rapporto con se stessi e con gli altri, perennemente impegnata nella ricerca dell’essere che spesso ha a che fare con la (o il senso della) morte in un incontro-scontro senza fine.
Dopo alcuni lungometraggi, Inarritu arriva alla (quasi) perfezione, in quanto tutte le componenti del film sono al top: sceneggiatura sfavillante, dialoghi serrati quanto acuti, scenografia esemplare per fantasia, regia magistrale, cast di altissimo livello, a cominciare da un maturo M. Keaton, che per una strana coincidenza indossò nel1989 i panni visionari di Batman nell’omonimo film di Tim Burton. Imperdibile
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