THE TREE OF LIFE (USA, 2011) di TERRENCE MALICK. Interpretato da BRAD PITT, SEAN PENN, JESSICA CHASTAIN, HUNTER MCCRACKEN, FIONA SHAW, LARAMIE EPPLER
Jack O'Brien lavora come architetto a New York fra le vertiginose prospettive dei grattacieli. Gli è rimasta impressa in mente l’infanzia, come anche l’adolescenza, trascorse negli anni ’50 a Waco (Texas) in compagnia dei fratelli (entrambi maschi) più giovani, del padre (uomo estremamente autoritario, ingegnere progettista di aerei che viaggiava il mondo e aveva al suo attivo 27 brevetti) e della madre (casalinga ingenua e remissiva, ma ciononostante brava nel dimostrare il suo affetto alla prole). Divenuto adulto, Jack ripensa a quel turbolento periodo e rivive nei ricordi il rapporto conflittuale con suo padre, il quale, con metodi molto severi e pretendendo il meglio da lui, gli aveva instillato nell’animo un odio che lo conduceva a mostrarsi competitivo in tutte le situazioni con coetanei e soprattutto ribelle al fatto che il genitore intendesse sottometterlo pur di farne un uomo coraggioso e di successo. Palma d’oro a Cannes 2011. Tre film in uno, e già qui potrebbe avviarsi una feroce disputa tra chi reputa un capolavoro il quinto film di Malick, chi al Festival lo ha fischiato e chi lo accusa di megalomania in bilico fra il sacro metafisico e la banalità New Age. Il meglio sta senza dubbio nella lunga storia di questa famiglia piccolo-borghese, composta dai genitori e i tre maschietti che, però, ha inizio quando il secondogenito 19enne muore tragicamente. L’altro film è breve e ruota intorno alla figura del Jack cresciuto che vive con placidità indifferente la sua esistenza lavorativa pianificando i suoi giorni. Tra i due sopracitati c’è il terzo film, caleidoscopio al tempo stesso cosmico e poetico di cinema espanso nel quale vediamo l’evoluzione dell’interazione fra i quattro elementi primordiali (acqua, aria, terra, fuoco) finché non si verifica il Big Bang e sulla Terra compaiono i dinosauri. È forse quantificabile il numero di mesi che il solitario e introspettivo regista ha dedicato alla postproduzione insieme a collaboratori prestigiosi – in particolar modo il direttore della fotografia messicano Emmanuel Lubezki e il compositore francese della colonna sonora Alexandre Desplat –, otto produttori (fra cui tre donne e lo stesso B. Pitt), cinque montatori, trentaquattro brani musicali di nove compositori celebri dove si spazia fra Bach, Berlioz e Gorecki? Quanti gliene sono occorsi per costruire un’opera che passa dal biblico Giobbe ad un’onirica contrapposizione Freud-Jung, dalla violenza alla grazia, dall’anima all’inconscio, da Dio alla Natura? Potente e sconnesso, è un film-mondo, magari non totalitario ma di sicuro totale, fragoroso ma in fondo pure sottile. Vale a tutti i costi la pena di vederlo (più al cinema che a casa) anche soltanto per la storia/non storia degli O'Brien, in cui ha ogni licenza d’esprimersi la fulva, lentigginosa, aerea Chastain, così capace di non interferire mai coi sistemi didattici del marito, ma non di nascondere la sua forza reattiva: il più commovente personaggio di madre visto sul grande schermo dal 2000 a questa parte. Quanto ad un ottimo Pitt, possiamo lodarne la recitazione concentrata di un padre che non risparmia al suo figlio maggiore neanche i rimproveri all’apparenza più sconvenienti per la sua educazione (proibendogli ad esempio di zittirlo e costringendolo a chiamarlo signore), un energumeno dei sentimenti perennemente alla ricerca di una vittoria che non ne scalfisca la patina da campione che sbandiera con notevole fierezza, ma dopotutto pur sempre un uomo bisognoso d’affetto che non affronta le proprie fragilità e realizza troppo tardi di non aver amato abbastanza ed essersi visto passare innanzi allo sguardo i suoi giorni in un lampo. Un papà come nessun bambino vorrebbe avere, eppure le riflessioni di Jack bambino, maturate dopo una fase iniziale in cui il senso di inferiorità si mescola ad una veemente impotenza, gli fanno comprendere che, dietro a tutto ciò, non v’è cattiveria: la vera chiave di lettura di comportamenti così aggressivi – un’aggressività non intesa in senso stretto, bensì inquadrata come una voglia di far primeggiare affinché l’allievo (figlio) non giunga ultimo – sta nel rifugio che ogni essere umano vittima delle proprie insicurezze si crea per non mostrare di aver necessità di uno sconfinato amore che travalichi le soglie dell’autosufficienza. Immaginifico e sfaccettato all’infinito, è un capolavoro imperdibile della settima arte che assurge al vertice di prodotto interessantissimo sia in qualità di inno alla vita e alle dinamiche/dimensioni famigliari, sia in veste di manufatto figurativo che sa sfoggiare un prestigio travolgente e torrenziale. Nonostante l’esiguità della sua presenza davanti alla macchina da presa, S. Penn è il motore che anima una vicenda fatta di luci e suoni anziché di vere e proprie parole proprio perché la sua memoria va indietro ai giorni che gli han permesso di sormontare le illusioni e l’innocenza dell’infanzia per trasformarsi in un soldato della vita che combatte ringraziando di giorno in giorno un’entità superiore per essere venuto al mondo. Una lettera spedita al fulcro del cuore che lo conquista a pieno titolo e afferma che, ai nostri tempi, c’è ancora spazio per il trionfo del Bene malgrado le inquisitorie diaboliche che quotidianamente minacciano una bellezza a cui non va d’essere sfigurata.
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