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Anni '50 circa. Una famiglia come tante altre si ritrova in un futuro non molto lontano a mettere in discussione la propria esistenza attraverso l'elaborazione di un lutto; un padre despota e un po' troppo rigido, un madre dolce ma accondiscendente e tre fratelli, ciascuno dei quali assorbe parte dei genitori in maniera diversa.
Il microcosmo familiare in rapporto all'infinità dell'Universo che nasce, crea, muta. Dal "brodo primordiale" all'essere "completo" con i suoi pregi e difetti.
Terrence Malick al suo quinto lungometraggio presentato a Cannes 64 -sotto fischi beceri dopo poco più di mezz'ora di film in sala preceduta da una folla idolatrante all'entrata- trasgredisce al tabù della Creazione, infrangendo quella parete in cui sono circoscritti Spazio e Tempo, dove molti registi non si sono spinti (da escludere Kubrick).
Attraverso inquadrature che annichiliscono il fruitore (e ce ne sono molte), il demiurgo Malick sublima le Parole che fungono da monologo interiore dei personaggi e illusoria didascalia, alle Emozioni negli infiniti antri dell'Universo.
Un montaggio emotivo, privo di ogni funzionalità alla narrazione (quasi assente) e logicità; fluido come l'incessante scorrere del tempo, contribuisce costantemente in questo profondo viaggio emozionale.
Le discrepanze dei genitori si riversano inevitabilmente sui figli sino ad arrivare in un non-luogo simile ad una spiaggia che non ha niente da invidiare a quella de "La sottile linea rossa" dove Tempo e Spazio diventano relativi.
Un film dolce e duro dunque, onirico e naturalistico, siderale ed umano; un parto nell'utero Universo.
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