Quando ci si trova di fronte a qualcosa di nuovo si provano sentimenti contrastanti. Da un lato la paura del non conosciuto e il suo rifiuto, che nascono dalla perdita di alcune certezze (per esempio: un film deve avere una trama, deve seguire una logica di causa-effetto…), dall’altro la nascita di un’emozione potente (un brivido di piacere, una curiosità irrefrenabile…).
Malick riesce a dar vita a questa lotta di impulsi ostili e quindi la sua creazione non può che essere interessante.
Già l’idea alla base del film colpisce. È una vera e propria sfida: relazionare la storia intimistica di una famiglia americana degli anni ’50 alle tematiche mistiche e metafisiche che da sempre generano nell’uomo domande senza risposta.
L’impresa sembra impossibile e forse in parte lo è davvero. Tuttavia Malick ci prova e il risultato è immenso. Quello che stupisce maggiormente è la capacità del regista di trovare legami tra micro e macrocosmo, tra particolare e universale. In questo senso episodi comuni della vita umana come la nascita di un fratello, il primo contatto con la morte da parte di un bambino, i sentimenti di una madre per i propri figli, la durezza di un padre e il suo disincanto verso un mondo crudele e indifferente, diventano occasione per raccontare la storia della genesi dell’universo, la morte di una stella, l’importanza della grazia e dell’amore che invadono ogni cosa, il concetto del male, il senso di colpa, la grandezza e la potenza della natura, la fragilità della condizione umana, la presenza o meno di un Dio che ci osserva (e ci ama?). Attraverso immagini bellissime e piene di incanto Malick riesce a fondere il piccolo con l’immenso, riesce a trovare punti di contatto tra realtà distanti e apparentemente inconciliabili con salti di scala impressionanti (dai microrganismi e alle nebulose).
Inoltre, la grandezza di questa “esperienza visiva” sta proprio nella capacità del regista di esprimere concetti e quesiti profondissimi nella maniera più diretta e libera possibile, attraverso il linguaggio universale delle immagini. Nessun altro linguaggio sarebbe stato capace di arrivare a tanto. Le domande nascono spontanee nella mente dello spettatore, il quale, con lo scorrere dei fotogrammi, è chiamato ad uno sforzo verso la ricerca di una risposta. Le immagini evocano qualcosa che si insinua senza chiedere il permesso. Un concetto, per esempio, che sembra di non aver compreso fino in fondo, ma che comunque è interiorizzato in un qualche substrato della mente.
Malick non dà risposte, ma si limita a descrivere la situazione, a fornire le linee guida per non perdersi nei meandri dei pensieri, per chiarire i punti focali di un discorso infinito. Si limita a segnalare i contorni di un disegno che solo lo spettatore può completare, con la sua personalità e intelligenza.
Nonostante ciò, qualcosa del suo pensiero emerge, in particolare la sua visione positiva verso un mondo dove, a dispetto della presenza del male, è l’amore a vincere (per esempio la scena del dinosauro o quella della richiesta del perdono).
Questo è l’augurio del regista, la sua speranza, che lascia un senso di pace a fine visione, che stordisce un po’. Questa la sua fede, così abituale, da risultare sconvolgente: “Ama perché se non ami la tua vita passerà in un lampo”.
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