Un film complesso, lungo, estetico, pretenzioso, affascinante, essenziale, religioso, metaforico, poetico, perfetto. E' un fiume in piena. 138 minuti di arte pura al servizio di un fine non esattamente modesto: raccontare la storia del mondo unendo il particolare all’universale, l’attimo con l’eternità.
La vita di una famiglia texana degli anni ’50 si mescola alle immagini della creazione in una narrazione in cui compare un’insolita struttura temporale. La morte di uno dei figli giustifica le domande sul senso della vita, sull’esistenza e la bontà divina, sulla grazia.
Brad Pitt è il pater familias severo ma non privo di amorevolezza. Un mix di Stanley Kowalski e di maestro zen che alterna momenti di violenza e severità assoluta a gesti di affetto e massime di vita. L’odio del primogenito verso questo padre convive con una stima nascosta e una consapevolezza della sua similarità con lui. Rivolgendosi a Dio, la cui metafora sembra essere il padre, il bambino dice: “se tu non sei buono, perché dovrei esserlo io?”. La madre, silenziosa e angelica, è sempre pronta ad accogliere e difendere i figli dalle ire del padre e accetta umilmente il maschilismo vigente e il rapporto edipico con i figli raffigurando il più alto livello di saggezza.
Nonostante la prolissità, il film rimane sobrio ed essenziale soprattutto nei dialoghi, pressoché inesistenti e spesso muti, assomigliando in questo senso ad un film delle origini: I monologhi interiori dei personaggi, potrebbero essere ridotti a delle didascalie. Il principio di economia adottato per le parole non vale per le immagini che scorrono copiose accompagnate da una musica onnipresente, evocativa, religiosa che richiama un punto di vista metafisico. L’assoluto infatti sembra essere il vero soggetto, che si esplica nelle sue infinite forme perfette stilizzate (come lo sono i personaggi), assoluto che egoisticamente crea la vita sulla terra, unisce e divide quasi come fosse un gioco le anime per poi ricongiungerle finalmente, come suggerisce una scena del finale, in un luogo paradisiaco.
La natura forte e magnifica è esemplificata dall’albero, elemento costante, che con le sue infinite ramificazioni è simbolo delle svariate forme di vita e, quasi in un’ottica darwinista, della loro lotta per la sopravvivenza. L’albero, che tanto più sprofonda le proprie radici tanto più si erge verso il cielo e la luce, richiama lo spirito dell'uomo, bramoso di conoscere le proprie origini e insieme proteso verso l'infinito.
Il senso rimane velato così come il volto del regista che in generale preferisce evitare le apparizioni in pubblico.
Benché “The tree of life” abbia appena strappato il maggior premio al 64esimo festival di Cannes, in sala molti annoiati o basiti disertano prima dell'intervallo: così anche il cinema compie la sua selezione naturale.
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