Non so, e quindi mi/vi domando, se un’opera, a qualsiasi forma d’arte appartenga, possa avere un valore solo ed esclusivamente per la sua costruzione estetica, prescindendo del tutto da qualunque valutazione in merito ai contenuti.
E se la risposta è sì, allora mi ritiro da quello che non è il mio campo, lasciando la parola a quegli specialisti ai quali non mi vanto, ma neppure mi dolgo, di non appartenere.
Se invece la risposta è no (in assoluto ho detto che non lo so, ma in questo ambiente di pubblico, non di critica, deve essere necessariamente no), allora riprendo la parola e ribadisco che si tratta di un’opera sopravvalutata, mediaticamente gonfiata a forza di premi prestigiosi. Come un palloncino dai colori sgargianti e vistosi, che però basta fargli un buchetto per ridurlo a un nonnulla da buttare nel cestino.
Difatti, se parliamo di contenuto, di messaggio, tutto l’elaborato e sofisticato marchingegno del film si riduce a questo: “Sì, è vero che la vita è tante volte ingiusta, incomprensibile, piena di contraddizioni difficili da accettare a chiunque abbia un minimo di coscienza e intelletto; e che, nel suo complesso, è congegnata come un’eterna arena, in cui ciascuno, anche non volendo, deve combattere contro gli altri per la sopravvivenza; e che siamo immersi in un’esistenza ostile, sempre incerta, che può renderci felici soltanto per quel primo, breve periodo in cui non comprendiamo un tubo, salvo poi deluderci amaramente e irrimediabilmente… Tuttavia, a dispetto di tutto questo, basta inventarsi (poiché saperlo, non possiamo) che tutto ciò è dovuto a un disegno superiore (che noi non possiamo comprendere, dobbiamo soltanto accettarlo, anche quando ci dà sopra ai denti senza che ce lo siamo neppure meritato facendo qualcosa di male, magari mentre i peggiori vincono e prosperano); e che, di tutto questo, saremo ricompensati dopo la morte, in un’altra dimensione, con un’eterna felicità: e allora tutto ci apparirà di nuovo roseo e radioso, e saremo pronti per amarla, questa vita, anche se ingiusta, incomprensibile e contraddittoria”.
E ALLORA? Se invece che al cinema, me ne andavo in qualsiasi chiesetta di campagna, avrei potuto ascoltare la stessa pappardella. Con un apparato scenico non alla stessa altezza, ma comunque, in molti casi, più che dignitoso. E senza pagare il biglietto (anche se il giro d’affari multimiliardario dietro, c’è anche in quel caso, leggi IOR al posto di Hollywood). Non sarà -mica per essere maliziosi, eh, ci mancherebbe- che, considerando la frequenza mediamente ventennale delle fatiche cinematografiche del signor Malick (dovuta certamente all’eccelsa qualità, alla minuziosa cura dei dettagli estetici, non certamente a una scarsità d’idee che lo possa spingere, pur prendendosi così tanto tempo, a non riuscire a partorire altro che la versione spettacolarizzata dell’omelia domenicale), qualcuno possa aver pensato di produrre tutto quello sforzo & sfarzo festivaliero-massmediatico allo scopo di corroborare il botteghino, e conseguentemente le tasche del sopraccitato signor Malick a dispetto della saltuaria attività dello stesso?
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