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Dal mare dei pirati al deserto del West

Parla Gore Verbinski, il regista di Rango, uno dei film più particolari dell'anno.
di Gabriele Niola

Rango è un camaleonte domestico che si crede un attore. Un giorno, mentre viene trasportato in auto lungo il deserto, viene sbalzato fuori dall'abitacolo. Lì per lui inizierà una magica e divertente avventura.

venerdì 25 febbraio 2011 - Incontri

Verbinski è tornato! Uno dei più limpidi talenti del cinema d'intrattenimento hollywoodiano, in grado da solo di ridare vita al genere d'avventura con La maledizione della prima Luna e responsabile di un adattamento j-horror migliore dell’originale come The ring, dopo quasi 5 anni di prigionia in un franchising che già dal secondo episodio aveva perso smalto finendo nelle mani del marketing più becero, è tornato a fare il cinema che vuole fare.
L’ultima volta che era sul set di un film fatto "come dice lui" aveva i capelli castani, ora invece sono tutti grigi ma guardando Rango, l’esordio nell’animazione suo e della Industrial Light And Magic di Lucas, sembra un ragazzino voglioso di sperimentare e cambiare i clichè.

Perchè fare un film d’animazione fuori dagli studios, appoggiandosi ad una società che non ne ha mai fatti come la ILM? Proprio tu che sei un regista di cinema dal vero?
L’animazione è cambiata molto negli ultimi anni e credo non sia più un genere, cioè qualcosa in cui ti misuri, che ha le sue regole e a cui ti devi adattare. Credo sia più una tecnica che applichi. Io ho girato questo film come fosse dal vero, come so fare e ho sempre fatto. Poi ho applicato la tecnica dell’animazione.

Rango è quasi un film nel film. Il personaggio principale si crede un attore che interpreta un ruolo, come se sapesse dove si trova.
Si ci sono molti elementi di questo tipo. Ho voluto innanzitutto mettere il coro greco, cioè una parte narrativa che faccia da cornice introducendo e commentando la storia come a teatro. Per rimanere in stile però li ho resi gufi messicani.
In questo modo è più plausibile la figura di Rango, un camaleonte attore che si percepisce come un eroe nel senso classico, prendendo ispirazione da Omero, Shakespeare e Sergio Leone, come se li avesse letti o visti. Lui che è un animale da acquario, quando arriva nella cittadina di Polvere sa di entrare in un genere, come se riconoscesse il contesto western.

Probabilmente Rango, il camaleonte-attore in cerca della propria identità nel mezzo del deserto al confine tra Messico e America, è uno dei personaggi meno consueti degli ultimi anni. Come lo hai creato?
Rango si muove e parla come lo Straniero senza nome di Sergio Leone, questa è stata la prima considerazione da cui sono partito. Sapevo però di volere qualcuno che facesse solo finta di essere in quel modo, perchè questo fosse evidente ho pensato che doveva provenire da un mondo diverso dal deserto, molto diverso, così ho pensato al mondo acquatico. Allora se viene dal mondo acquatico può essere un camaleonte, se è così deve essere diverse cose insieme, allora è un attore, quindi forse ha una crisi di identità! Ecco è andata più o meno così.
Solo quando ho finito questo giro logico ho capito come raccontare questa storia e girare il film. In quel momento ho pensato che tutto il film sarebbe stato una grande ricerca dell’identità.
Alla fine Rango è un film che ha un livello che si può definire esistenziale, ma ne ha anche uno più immediato, quello di un personaggio che vuole essere amato e appartenere a qualcosa, elementi sentimentalmente e tematicamente complessi ma allo stesso tempo anche semplici.

Il film però alla fine è un western tra passato e modernità del genere
Si, sono un fan del west postmoderno, quello in cui il mito dei pistoleri sta finendo, si avverte la fine di un’era e il progresso sta arrivando solitamente sotto la forma della ferrovia.
Invece che la ferrovia io ho utilizzato l’acqua, il suo business e il suo controllo come motore della corruzione, l’inquinamento della modernità. È qualcosa che avviene anche in Chinatown di Polanski, che racconta una storia vera, la California ha realmente avuto una storia di corruzione legata al controllo dell’acqua. Dunque l’avanzare di questo business, come quello della ferrovia, è inscritto nella storia del west degli Stati Uniti.

Forse c’è più Sergio Leone che Chinatown...
Si è vero. Molto ma non solo. Ad esempio mi ispiro molto alla schadenfreude di Tex Avery, cioè quel modo di celebrare e trarre piacere dalle sconfitte, dai tonfi o dal dolore del personaggio.
Ma alla fine il west per me è sempre stato fatto da straordinari personaggi secondari che sembrano avere una loro storia molto più grande del piccolo segmento raccontato nel film. Dietro ognuno senti che c’è un intero film. Era così nei western con grandi caratteristi che portavano questo senso della storia.
In Rango ho cercato di fare questo per ogni comprimario. Ad esempio c’è un coniglio con un solo orecchio, non raccontiamo mai come ha perso l’altro, forse c’è una grande storia dietro.

Rango esce a pochi mesi dall’uscita di Il grinta, un altro film che riporta in auge i temi e il mondo del West. Un caso?
Abbiamo lavorato a questo film per tre anni e mezzo, non avremmo mai potuto sapere cosa stavano facendo i fratelli Coen.
Ad ogni modo credo che il west si nasconda in molti film e sia sempre presente sotto mentite spoglie. Star wars è un western, I pirati dei Caraibi pure, in Rango e Il grinta è solo narrato nel suo ambiente originale. Il west è l’ambiente perfetto per scarnficare personaggi e situazioni, anche se le nostre vite poi sono così complesse.
Ciò che amo nel west è come mostri l’incedere della morte e del progresso. La gente si guarda intorno e pensa: "Quando abbiamo dato via la nostra individualità per il progresso?".

Ha lavorato con voi il grandissimo direttore della fotografia Roger Deakins in veste di consulente. Non è la prima volta che fa questo per un film d’animazione. Esattamente in che consiste il suo apporto?
Abbiamo affrontato il film come se fosse dal vero e abbiamo preso tutte le decisioni (dal suono alla fotografia) come avremmo fatto sul set.
In questo senso è stato preziosissimo Roger che ha lavorato con la ILM e i tecnici per spiegare loro che nei film dal vero si bara moltissimo. Mettiamo gli attori sulle scatole per farli sembrare più alti, spostiamo le luci ad ogni scena e ogni volta ricomponiamo tutto per realizzare un nuovo pezzo di narrazione. Far sì che la ILM si adattasse a quest’idea di lavorazione è stata una vera lotta, almeno all’inizio.
Ad esempio quando lavoriamo in un film dal vero abbiamo sempre due soli in ogni inquadrature, perchè giriamo una scena la mattina una il pomeriggio e poi uniamo le immagini.
Io non avrei mai potuto stare appresso anche a questo, era troppo sforzo per me. Roger mi ha dato una mano in questo, i tecnici lo chiamavano continuamente per risolvere problemi o anche solo chiedendogli: “Cosa avresti fatto se fosse stato un film in live action?”.

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