Lost in Translation - L'amore tradotto

Roberto Nepoti

Passato un po' in sordina a Venezia (un premio a Scarlett Johansson nella sezione Controcorrente), Lost in Translation è un film delizioso, un film-sorpresa che accredita la figlia d'arte Sofia Coppola come una regista di grande personalità. Oltre a ispirare a Bill Murray un'interpretazione che sarebbe colpevole non "nominare" per i prossimi Oscar.
Bob Harris è un divo americano di mezza età, nonché marito di lungo corso, in Giappone per girare una redditizia pubblicità su un whiskey locale. Anche lei in trasferta nipponica, la giovanissima Charlotte comincia ad avvertire la depressione di un matrimonio recente, ma che già sente sbagliato, con un fotografo di celebrità.
Sperduti in un Paese dove le cortesie cerimoniali convivono con le stimolazioni sensoriali più aggressive, i due stabiliscono un contatto nel lussuoso Park Hyatt Hotel di Tokyo, perfetto scenario per inquadrare la solitudine, parlano, si fanno compagnia. Insieme decidono di esplorare la metropoli notturna, tra un locale e un karaoke bar. S'innamorano pudicamente, quasi loro malgrado: ma esisterà, per i due innamorati d'età così diversa, la seconda chance?
L'idea di ambientare la storia in una città un po' affascinante, un po' aliena, dove i protagonisti si sentono totalmente spaesati è eccellente. Più che la geografia dei luoghi, però, Sofia esplora quella delle anime: ne risulta un film che sposa con raro talento umorismo e malinconia, dolcezza e retrosapore amaro. La giovane regista mostra solide doti di maturità e originalità insieme, riuscendo a comunicare allo spettatore le sensazioni desiderate con un nitido linguaggio cinematografico.
Lost in Translation è spesso divertente: basta vedere le scene in cui Murray è alle prese con una petulante prostituta che pretente di farsi leccare - o strappare - le calze (qui qualcosa va "perduto nella traduzione", come recita il titolo), con un regista fuso di testa, con un petulantissimo intrattenitore televisivo. Bill, poi, è imperdibile quando improvvisa davanti alla macchina da presa - e si vede che lo fa davvero - nella parte del bevitore di whiskey per lo spot.
Però l'eccezionalità della sua interpretazione sta da un'altra parte, quella stessa in cui va ricercata anche l'eccezionalità del film. Ovvero nella vulnerabilità che traspare dietro la maschera umoristica; in un senso di malinconia (quel sentimento che qualcuno ha chiamato "il piacere della tristezza") raramente apparso così attraente, perfino
Da La Repubblica, 6 dicembre 2003


di Roberto Nepoti, 6 dicembre 2003