Lost in Translation - L'amore tradotto

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Un film di Sofia Coppola. Con Bill Murray, Scarlett Johansson, Giovanni Ribisi, Anna Faris, Fumohiro Hayashi Titolo originale Lost in Translation. Sentimentale, durata 105 min. - USA 2003. MYMONETRO Lost in Translation - L'amore tradotto * * 1/2 - - valutazione media: 2,92 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Riccardo Stagliano

La Repubblica

È la capitale delle traduzioni impossibili. E quindi Tokyo è anche l’inevitabile location del formidabile film di Sofia Coppola, Lost in Translation, che il 5 dicembre arriva nei cinema italiani con un titolo, L’amore tradotto, che non rende quanto l’originale: Perso nella traduzione, appunto. Roppongi, tanto per cominciare, è il quartiere di quelli che i giapponesi chiamano gentiemen club, e invece sono posti dove, a giudicare dalle giarrettiere nelle locandine (e al molto che non coprono) un gentiluomo non metterebbe mai piede. Dal suo incrocio principale, se chiedete dell’Hotel Hyatt a tre, quattro passanti, nessuno vi risponde in inglese ma tutti vi mettono sulla strada a gesti e sorrisi: tutto dritto, si capisce, e ci si inchina per contraccambiare.
Ora, l’Hotel Hyatt è la location del secondo film (dopo il bell’exploit del Giardino delle Vergini suicide) della figlia di Francis Ford, che ha conquistato l’ultima Mostra del Cinema e in America è già cult. Ma quando finalmente si arriva alla Mori Tower, il certificato edile di onnipotenza della ricchissima famiglia di imprenditori, e la segnaletica a fumetti disegnata dal celebratissimo Takeshi Murakami indica “Grand Hyatt”, è solo la prima di una lunga serie di malintesi quella di credere di essere arrivati a destinazione.
“Scusate, dov’è il posto in cui il film di Sofia Coppola è stato girato?”. Tutto il personale è vestito Armani, o qualcuno che gli assomiglia sfacciatamente. Ma nonostante il completo di taglio occidentale il ragazzo strabuzza gli occhi: “Film qui? Nessun film qui” e prende una cartina del quartiere per mostrare dove sono le sale più vicine. Se provate a insistere sullo “shot”, “girato”, il giovane chiama un superiore, che non ne sa niente. L’imbarazzo cresce, palpabile, sulle loro facce. Hai voglia a spiegare che il luogo dove si incontrano i due protagonisti, Bob (Bill Murray) e Charlotte (Scarlett Johansson), è un american bar dalle cui immense vetrate si vede tutta la città... Finalmente il caposala, un inglese, svela l’arcano: “Il posto che cerca è al Park Hyatt: 20 minuti da qui”.
Scendendo al decimo piano, ecco una sala da dove entra e esce un sacco di gente. Un cameriere chiede: “Serve aiuto?”. “Sì, saprebbe indicare il posto dove hanno girato il film...”. Film? Quale film? Questa è la sala dei matrimoni, festeggiati con tanto di karaoke e, certo, “qui tutti fumano film”, sono i filmini, tutti girati con le videocamere digitali (ce ne sono almeno una ventina in funzione contemporaneamente) e anche il cameriere mima il gesto della cinepresa... E torna subito in mente la scena del film in cui Bob - un attore che negli Usa ha già iniziato la discesa - resta sgomento quando il regista giapponese dello spot che deve girare a Tokyo cerca dì spiegargli l’espressione giusta da assumere per pubblicizzare una marca dl whisky: l’uomo mitraglia un migliaio di parole che al termine l’interprete sintetizza con un “più intenso”, l’attore sembra basito ma i due milioni di dollari di compenso gli danno una riserva inesauribile di pazienza e decide che l’unico modo è di fare come gli viene: “For relaxing times, it’s Suntory time”, sentenzia infine sornione, e all’interlocutore non resta che arrendersi alla sua interpretazione.
Il resto di Lost in Transiation si svolge perlopiù dentro i sessanta e passa piani dello spazio ermetico dell’Hyatt. Charlotte è la 25enne moglie di un fotografo di moda che ha a fuoco tutto meno che alle ansie crescenti della ragazza. Lui è fuori tutto il giorno, lei guarda la città dalle finestre della camera. Spesso piange e quasi mai riesce a prender sonno. Come il cinquantacinquenne Bob, che ha la faccia di uno che ha digerito un sacco di bocconi amari nella vita ma non riesce a buttar giù il jet lag e vaga tra il bar e i corridoi di quell’enorme stazione spaziale.
I due si vedono e si sorridono, Cominciano a cercarsi per farsi compagnia. Lui intanto riceve neI cuore della notte i fax della moglie che calcola male i fusi orari e lo mette al corrente delle opzioni possibili per la moquette: “Meglio color prugna o amaranto?”. Non sa cosa rispondere, non gli sembra che faccia (più) una gran differenza e le telefonate intercontinentali con la compagna di una vita sono burocratici, sonnolenti, penosi scambi di monosillabi intervallati da silenzi che il ritardo della comunicazione acuisce. Marito e moglie parlano la stessa lingua ma non si capiscono più.
E a diecimila chilometri da casa Bob, lentamente, impercettibilmente, entra in contatto con l’altra giovane ospite allenata di quell’albergo cinque stelle. Un avvicinamento costellato di trovate geniali e spassose. Come quella dell’attempata geisha che mandano in camera all’ex stella hollywoodiana e che vuole farlo felice al grido dì “strappami le calze” (“rip my stockings”) che, malpronunciato; si trasforma nell’ancora più grottesco “lick my stockings”, “lecca le mie calze”. Lost in Translation: perso nella traduzione...
Le celle extra-lusso dell’Hyatt - che uno zelante capo ora mostra con orgoglio nipponico - sono l’ideale contenitore sottovuoto delle rispettive solitudini. Anche la scenografica piscina del 45esimo piano, dalle cui finestre a vetri si vede la metropoli con le sue lucine distanti, è illuminata da faretti che rendono il suo azzurro non tanto di acqua ma di amnio, in cui i due naufraghi ritrovano un surrogato di natura. “Non succede molto”, sintetizza David Denby sul New Yorker, “ma il film crea un incantesimo”. “Uno dei più bei film dell’anno”, dice il critico del San Francisco Chronicle. “La relazione tra Bob e Charlotte”, scrive Salon, “è un momento di intima magnificenza. Mai visto niente del genere”. E così è, un amore impossibile, agrodolce e intraducibile, che nasce e si compie nell’empireo terrestre e tutt’attorno nuvoloso del Park Hyatt.
Da Il Venerdì di Repubblica, 28 novembre 2003


di Riccardo Stagliano, 28 novembre 2003

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