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Rassegna stampa di Sergio Leone

Sergio Leone è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 3 gennaio 1929 a Roma (Italia) ed è morto il 30 aprile 1989 all'età di 60 anni a Roma (Italia).

FRANCESCO TROIANO
MYmovies.it

Esordisce nel cinema lavorando come assistente volontario e comparsa, fra l'altro, in Ladri di biciclette (1948) di De Sica. In seguito, è a lungo aiuto regista di Mario Bonnard: nel '59, essendo quest'ultimo ammalato, lo sostituisce sul set de Gli ultimi giorni di Pompei per completarne le riprese. Dopo aver fatto l'aiuto regia del Ben Hur (1959) di William Wyler e diretto la seconda unità in Sodoma e Gomorra (1961) di Robert Aldrich, egli licenzia infine col mitologico Il colosso di Rodi (1961) il primo lungometraggio tutto suo. È del 1964, tuttavia, il film che lo imporrà all'attenzione generale: Per un pugno di dollari, firmato con lo pseudonimo di Bob Robertson in omaggio al padre, indica una convincente via al western autarchico lungo i sentieri d'una narrazione barocca e survoltata, roboante ed iperviolenta (pur sulla base d'uno spunto non originale, mutuato con evidenza da "La sfida del samurai" di Akira Kurosawa). I successivi Per qualche dollaro in più (1965) ed Il buono, il brutto, il cattivo (1966) completano quella che verrà definita la "trilogia del dollaro", incassano cifre enormi, ripropongono una formula vincente: aggressiva ed accattivante colonna sonora di Ennio Morricone, interpretazioni sornione e grintose di Clint Eastwood (ma anche degli ottimi Gian Maria Volonté e Lee Van Cleef), cui s'aggiunge - a livello stilistico - una iperbolica dilatazione dei tempi narrativi che diventa, a tratti, paradossale ieraticità del gesto. C'era una volta il West (1968) conferma ed infrange nello stesso tempo gli schemi di cui sopra, inscenando la fine del West e del mito della Frontiera: l'icona Henry Fonda assume per l'occasione i tratti d'un assassino feroce ed inesorabile, il ligneo profilo di Charles Bronson gli si contrapppone in una cupa vicenda di vendetta e di morte, diretta con mano maestra da un autore ormai giunto alla piena maturità. Se il successivo Giù la testa (1971), colorito e movimentato pot pourri sulla rivoluzione ambientato nel Messico di Villa e Zapata, ristagna un po' fra manierismo e ritualità, è con C'era un volta in America (1984) che il cineasta romano dà vita al suo indiscusso capolavoro. Frutto d'una lunghissima gestazione, il film colloca negli anni ruggenti del proibizionismo una storia di gangster ed amicizia che si dipana per quasi quattro ore tra piombo&sangue alla Damon Runyon ed intenerite parentesi di fitzgeraldiano struggimento, il tutto all'insegna di un'acuta cognizione della memoria di sapore proustiano: con il contributo di attori mirabili (De Niro è il più citato, ma James Woods gli tiene testa benissimo) e del commento sonoro indimenticabile di Ennio Morricone, all'insegna d'un senso dell'immagine a dir poco stregante. La parabola artistica di Leone si conclude qui: un infarto lo stronca nella sua casa romana il 30 aprile 1989, mentre è alla prese con il laborioso progetto d'un film incentrato sull'assedio tedesco di Leningrado.

GIULIANO ZINCONE
Il Sole-24 Ore

Gli intellettuali lo snobbavano, ma Sergio Leone con i suoi western aveva inventato un genere di tutto rispetto utilizzando talenti come Clint Eastwood e Claudia Cardinale. Moriva il 30 aprile di vent'anni fa.
Quando finisce la musica, spara, se ti riesce», sghignazzava il depravato assassino Gian Maria Volonté. Ma adesso ha paura. Il carillon dell'orologio pendulo allaga a poco a poco lo schermo. Ed è velocissimo il revolver vendicatore del colonnello Lee Van Cleef «Bravo», sussurra Clint Eastwood, arbitro del duello, con la serena voce italiana di Enrico Maria Salerno. Musica alta di Ennio Morricone. Scena indimenticabile, come tante altre, nel cinema di Sergio Leone. Scene snobbate dagli amanti dei silenzi enigmatici di Bergman/Antonioni e del vetusto Ejzenstejn, prima che Fantozzi affondasse la corazzata Potémkin.
«Western spaghetti», chiamavano i film di Leone, quando era ancora in voga il vezzo (soprattutto anglosassone) di sfottere la gente per quel che mangiava. l francesi erano "rane", i tedeschi "crauti", eccetera. Com'era l'umorismo britannico? Alimentare, Watson. Ormai, a Londra, quasi tutti mangiano spaghetti e (per colpa della mucca pazza?) trascurano la squisita steak&kidney pie. I giudizi e le mode cambiano, per fortuna. Clint Eastwood, quando recitava nella "trilogia del dollaro", era sottovalutato più di Berlusconi, quando "scese in politica". Di lui (di Clint, mica di Silvio) si diceva che avesse soltanto due espressioni: una con il cappello e una senza. Però quell'impassibilità era stupenda, quando incassava i colpi di fucile, protetto da una gualdrappa di ferro nascosta sotto il poncho. Però oggi nessuno dubita della genialità dell'uomo inespressivo, che è diventato un grande regista e perfino un compositore di musiche affascinanti.

LUIGI PAINI
Il Sole-24 Ore

«My name is Bob Robertson. I make westerns». Parafrasando John Ford, potrebbe essere la frase di presentazione ili Sergio Leone. Roberto, figlio di Roberto, "Bob Robertson": questo, come tutti sanno, il nome d'arte che il giovane Sergio scelse per firmare i suoi primi western-spaghetti. E Roberto Roberti, questo non tutti lo sanno, era appunto il nome d'arte del padre, regista dei mitici anni del cinema muto.
Allora, per far uscire dall'ingiusto oblio cotanto padre, cominciamo questa carrellata sui film di Leone reperibili in dvd (praticamente tutti) parlando di un'opera che in dvd, almeno per il momento, non c'è più. Un'opera meravigliosa, presentata alle Giornate del cinema muto di Pordenone di qualche anno fa: Napoli che canta, immagini del capoluogo partenopeo e di un'intatta Costiera Amalfitana girate negli anni 20, destinate agli occhi inondati di nostalgia dei nostri emigrati in terra d'America. Il dvd era nel catalogo della Sony, accompagnato da una struggente serie di melodie napoletane interpretate da Giuni Russo.

ELENA MARTELLI
Il Venerdì di Repubblica

A vent'anni dalla morte, la figlia Raffaella racconta il grande regista: presentissimo in Famiglia e un po' 'tirannico, come sul set. Con leggendarie perfidie. Come quel giorno che lasciò la moglie in balia di un altro leone.
«Dopo la scomparsa di papà, c'è voluto molto tempo prima che potessi rivedere C'era una volta in America: di tutti i suoi film, è quello che lo rispecchia di più» racconta Raffaella Leone che ha gli stessi occhi verdi, brillanti, del titanico Sergio. Dei tre figli, due hanno seguito le tracce paterne: Raffaella, che è la più grande, con il fratello minore Andrea, gestisce la Andrea Leone Films, la stessa casa di distribuzione cinematografica fondata dal padre anni fa. Mentre Francesca fa la pittrice, ma
anche sui suoi ritratti è visibile l'influenza del padre, un certo gusto per quell'inquadratura serrata, tanto tipica che oggi Tarantino, se vuole un primissimo piano, può dire a un cameraman «Give me a Leone» ed essere perfettamente inteso. Chissà se anche il regista di Le Iene si ricorderà fra sei giorni di celebrare il grande maestro del cinema: il 30 aprile fanno vent'anni dalla sua morte e Cannes gli dedicherà una giornata speciale. Raffaella preferisce, ringraziando; festeggiare il padre «ricordando gli ottant'anni dalla sua nascita», a Roma, quartiere Trastevere, i13 gennaio del 1929.

SERGIO DONATI

Per un pugno di dollari, che pure avrei potuto scrivere, è l'unico western di Leone che mi manca. Ma gli altri li ho fatti, o dovrei dire sofferti, tutti. A Per qualche dollaro in più e a Il Buono, il Brutto, il Cattivo ho lavorato come 'negrò personale di Leone. Ero giovanissimo e questo era un prezzo che si usava pagare. Inventavo scene, riscrivevo di sana pianta dialoghi che poi Sergio spacciava per farina del suo sacco per non offendere lo sceneggiatore “ufficiale”, che era Vincenzoni. (Luciano a quei tempi neanche sapeva che esistevo: ma dopo siamo diventati amici fraterni al punto di scrivere in coppia più di venti film). Poi finalmente ho raggiunto l'onore della firma nei titoli di testa con la sceneggiatura di C'era una volta il West e il soggetto e la sceneggiatura di Giù la testa.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Il padre si chiamava Vincenzo e - regista del muto - si firmava Roberto Roberti (la madre, attrice di film avventurosi, era Bice Valerian). Lui, che interrompe gli studi di legge e appena può s'infila nel cinema, assistente in varie mansioni, sceglie come pseudonimo con cui firmare il primo suo western Bob Robertson, nome americano per contrabbandare la merce ed evocare la famiglia (il figlio di Roberto). In effetti, dopo aver: seguito le orme di tutti gli specialisti di kolossal, italiani (Gallone, Camerini) e stranieri (Wise, LeRoy, Aldrich, Wyler, Walsh), Leone esordisce con uno sgargiante «mitologico» - Il colosso di Rodi (1960) - nel quale rivela un sicuro gusto dello spettacolo e una padronanza tecnica assoluta. Saranno le qualità che gli permetteranno quattro anni dopo di vincere la scommessa temeraria di trapiantare in Italia, rinnovandolo e «radiografandolo», il genere più storico, epico e favoloso del cinema statunitense.

UGO CASIRAGHI

Sergio Leone era figlio di un'attrice e di un regista del muto e pochi altri come lui, almeno in Italia, si formarono nell'ambiente del cinema. Il suo tirocinio tecnico ricordava quello dei grandi vecchi americani, John Ford, Howard Hawks, gente cresciuta sul set dalla gavetta, in un artigianato umile e proficuo. Quando Hollywood si riversò sul Tevere con i suoi colossi biblici o romani, Leone non si lasciò sfuggire l'occasione di perfezionare il mestiere imparato in casa, da Gallone, Camerini, Bonnard, mettendosi al servizio dei maestri d'oltreoceano, anche se ormai un po' scoloriti. Non ancora ventenne si era intruppato tra i seminaristi di Ladri di biciclette che corrono per evitare il temporale, ma quella fu la sua unica partecipazione al neorealismo. l suoi preferiti divennero negli anni Cinquanta i confezionatori, all'italiana o all'americana, dei grossi spettacoli in costume, dei quali d'altronde l'intraprendenza nostrana aveva dato prova nel cinema d'inizio secolo, ancor prima di Griffith. Il cosiddetto peplum fu, per Sergio Leone, la scuola di avviamento al lavoro.
Quo vadis? , Elena di Troia, Ben Hur, Gli ultimi giorni di Pompei, cui prese parte attiva e con crescenti funzioni di responsabilità, gli permisero di esordire nel 1960, quale regista in proprio, con Il colosso di Rodi. I film firmati da Sergio Leone non sono molti, soltanto sette, ma il primo non poteva essere che un peplum. Due anni dopo proseguì come collaboratore di Robert Aldrich per Sodoma e Gomorra, che provocando il fallimento della Titanus gli fece capire che il genere da praticare andava cambiato. Sempre, però, senza allontanarsi dal popolare. Anzi, assumendo il genere più antico e popolare di tutti: il western.
Ci sono cineasti che fanno cinema sulla vita e altri che lo fanno sul cinema. Leone sembrò, all'inizio, il campione italiano di questa seconda categoria. La linea di demarcazione si presentava netta a metà degli anni Sessanta: da un lato Bertolucci e Bellocchio portavano sullo schermo la propria autobiografia (Prima della rivoluzione, I pugni in tasca), dall'altro Bob Robertson centrava il suo bersaglio con Per un pugno di dollari, copiando un film di Kurosawa a sua volta costruito su modello americano. E chi era Bob Robertson se non il «figlio di Roberto Roberti», regista di Francesca Bertini? Nessuno, né il regista, né il musicista, né gli attori, firmava Per un pugno di dollari con il proprio nome, ma tutti con pseudonimi americani. L'unico che lo manteneva, perché ce l'aveva di suo, era Clint Eastwood, il protagonista ingaggiato dagli Stati Uniti, al quale Leone aveva messo addosso un poncho e in bocca un sigaro toscano. Ma nessuno credette, allora, che quel nome fosse vero.

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