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Dal libro al cinema: i film che bisogna vedere (e quelli che andavano evitati)

Quello tra letteratura e cinema è sempre stato un rapporto ambiguo, stretto e tormentato.
di Pino Farinotti

lunedì 27 aprile 2020 - Focus

Il corso che ho tenuto alla IULM – Libera Università di Lingue e Comunicazione, fa parte del “Master in arti del racconto: letteratura, cinema, televisione”: direttori scientifici Gianni Canova e Antonio Scurati. Le materie erano due: il rapporto fra il libro e il film e i film che è indispensabile aver visto. Argomenti larghi e affascinanti, naturalmente, che presupponevano delle scelte, delle prospettive. In realtà le due “materie” hanno finito per assimilarsi, seppure non in assoluto, perché molti dei film figli di grandi romanzi, in automatico diventavano “indispensabili”.

Ho deciso un criterio di selezione e di visuale, partendo dai libri. Che la letteratura, arte nobile, prevalga, è  legittimo, attestato da una verità impietosa: salvo rare anomalie non esistono libri tratti da film ma solo film tratti da libri. Starò ad alcuni dei temi primari. Costretto dallo spazio.

Il rapporto fra cinema e letteratura è sempre stato stretto e tormentato. Stretto perché non c’è romanzo importante che non abbia avuto la sua versione cinematografica, -  due eccezioni, rilevanti, "Il giovane Holden" di Salinger e "Cent'anni di solitudine" di Marquez - tormentato perché le due discipline hanno regole molto diverse. Il cinema ha toccato tutti gli autori, tutti i giganti. Da Omero a Shakespeare alla Christie, da Goethe a Mann a Grass, da Hugo a Proust a Flaubert a Bernanos, da Manzoni a Moravia a Lampedusa, da Fitzgerald a Hemingway a King, da Dickens a Kipling, Da Tolstoj a Sol?enicyn, a Kafka a Joyce, Joseph Roth a Garcia Marquez a Tolkien.

Non c’è dubbio che ad essere privilegiato sia il cinema, al romanzo appartengono profondità, introspezione, verità, al cinema spettacolo e happy end. Il lieto fine ha spesso stravolto i contenuti dei romanzi. Si tratta di accettare due termini: licenza e contaminazione. Il cinema ha tutti i diritti alla licenza, la letteratura avrebbe tutti i diritti alla salvaguardia della propria identità. Va anche detto che alla fine “pesando” licenze e contaminazioni, nell’insieme della collaborazione, il barometro volge di qualche grado al bello. Fra libri e film si è instaurato un rapporto di mutuo soccorso che naturalmente ha favorito la letteratura, anche se nell’era recente il cinema ha tentato un’emancipazione, ha risalito qualche posizione di merito.

Una contaminatio, filologicamente disastrosa, spettacolarmente efficace, è Troy. Sì, l’Iliade. Inutile stilare una lista degli errori, non basterebbe… un’altra Iliade, però si possono rilevare alcuni falsi sostanziali e “impossibili”, diciamo così. Per esempio la morte di Menelao, reso odioso dagli autori fin dall’inizio. Viene ucciso da Ettore per difendere il fratello Paride umiliato. Il regista Petersen vanifica così un episodio del sequel Odissea, dove Telemaco, alla ricerca del padre Ulisse, ritrova il re di Sparta a casa, con la moglie Elena al suo fianco, forse eroticamente placata, comunque perdonata. Ma c’è di peggio, anche Agamennone ci lascia le penne, sgozzato da Briseide schiava-amante di Achille. Ed ecco azzerato il ciclo di Agamennone che ha alimentato la successiva Orestea di  Eschilo.

Un altro gigante devastato è Shakespeare. Troppo grande è la tentazione. Il massimo autore inglese scriveva per il cinema quattro secoli fa, tutto incredibilmente perfetto: il ritmo del racconto, gli artifici, il sangue (soprattutto quello blu) gli amori e le guerre. I film ci hanno proposto Amleto in costumi da corte viennese, Riccardo III fra i nazisti, Romeo e Giulietta a Los Angeles e Titus nel palazzo dell’Eur.   L’espressione “ufficiale”, seppure toccata dal tempo, di Shakespeare rimane l’Amleto di Olivier del ’48, essenziale e pulito, rispettoso in assoluto del testo. Come a dire: William si beveva, già allora, tutti gli sceneggiatori. Un altro maestro eroe della contaminazione è Ernest Hemingway. Quasi tutti i suoi romanzi sono diventati film e anche molti dei racconti. Lo scrittore di Chicago odiava il cinema, non mise mai il piede sul set di un film tratto da un suo libro. Hemingway era perfetto per essere maltrattato dal cinema, la sua sindrome si chiamava “lieto fine”. Si sa che l’happy end è la condicio sine qua non di gran parte del cinema americano. Alla letteratura, specie a quella di Hemingway, il lieto fine non si addice.

 


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In foto Pino Farinotti e Antonio Scurati.

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