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ONDA&FUORIONDA

Da Lincoln a Grant.
di Pino Farinotti

In foto una scena di Lincoln.
Daniel Day-Lewis (Daniel Michael Blake Day-Lewis) (67 anni) 29 aprile 1957, Londra (Gran Bretagna) - Toro. Interpreta Abraham Lincoln nel film di Steven Spielberg Lincoln.

domenica 3 febbraio 2013 - Focus

Uno dei personaggi centrali del Lincoln di Spielberg è il generale Ulisse Grant. Nel film (ed è storia) Grant - l'attore è Jared Harris, il Moriarty nemico mortale di Holmes-Downey) - riceve alcuni emissari del governo ribelle, chiamiamolo così, mandati dal presidente degli Stati Confederati Jefferson Davis. Lincoln incaricò, di nascosto, il comandante in capo dell'esercito, per quella missione. Da bravo e furbo politico non voleva essere coinvolto in quella manovra poco ortodossa, anche se in politica, in quella circostanza poi, tutto era ortodosso. L'idea era quella di trattare una resa del Sud, concedendo magari una contropartita. Ma gli inviati sudisti posero come condizione della resa la rinuncia alla liberazione degli schiavi. Si trattava di fare un semplice conto: anticipare la resa avrebbe salvato delle vite? Quante? Valeva la pena di rinunciare a quella emancipazione eroica che cambiava e sublimava la dignità dell'America? Il calcolo non fu complicato: la trattativa avveniva in gennaio, la guerra era ormai vinta dal Nord. Le vite umane risparmiate non valevano la rinuncia storica della grande liberazione dei neri. Grant rispose che l'unica condizione accettabile era la resa senza condizioni. Una risposta che faceva parte del suo carattere. Militarmente Grant era un attaccante. Il suo motto era "vado dove tuona il cannone". Era un ariete inarrestabile. Vinse battaglie decisive, a Shiloh e a Chattanooga. Incalzò i sudisti fino alla roccaforte di Richmond. Di fatto fu l'eroe dell'esercito dell'Unione.

Ricostruzione
Dopo l'assassinio di Lincoln nell'aprile del 1865, divenne presidente il suo vice Andrew Johnson. Il neoeletto doveva affrontare la fase delle ricostruzione, e dell'integrazione, non solo dei quattro milioni di neri, ma delle diverse, e contrastanti culture fra Nord e Sud. Johnson non possedeva l'energia e il carisma di Lincoln e non era all'altezza di quel compito. Anche se, certo inconsapevolmente, compì un'azione che si sarebbe rivelata, in prospettiva, di portata abnorme, politica, strategica, etnica: nel marzo del 1867 comprò l'Alaska dei russi per 7,2 milioni di dollari. Non è davvero difficile immaginare lo scenario, nell'era moderna, di una simile situazione geografica, con l'incidenza che avrebbe avuto la Russia disponendo di quel territorio proprio nel cuore del nuovo continente.
Allo scadere del mandato-Johnson la nazione ritenne che fosse il momento del cosiddetto uomo forte. E Grant era perfetto. Candidato del partito repubblicano stravinse contro il democratico Horatio Seymour, e divenne il diciottesimo presidente degli Stati Uniti. Ma il presidente non fu all'altezza del generale. All'ex grande guerriero mancavano le doti di diplomazia, di sottigliezza e di pensiero che devono appartenere a un politico. Si circondò di collaboratori non all'altezza, molti corrotti. La sua storia di eroe di guerra gli aveva dato un tale abbrivio da essere eletto per un secondo mandato. Ma gli atti presidenziali di Grant non fanno parte della grande storia americana. Rimase sempre un generale diventato presidente per le battaglie vinte. E non vinse mai un'autentica, decisiva battaglia politica, o sociale.

Spazio
Nel suo film Spielberg gli concede un certo spazio, naturalmente. Il momento è quello, finale, della resa del generale Lee ad Appomattox, il 9 aprile del 1865. Grant è in piedi sulla veranda di una casa rurale. Lee, a cavallo, si avvicina, lento e curvo. Il cielo è grigio, così come l'erba e le piante. Come può esserci il sole in quell'ora che sanciva un'evoluzione, un contrappasso così vasto e doloroso, dove tutto cambiava, status di quattro milioni di persone di colore, cultura, tradizione, economia, e con tutti quei morti, tutti americani. Con una ferita così aperta, anche in futuro. Quando nel sud gli yankees sarebbero stati gli "yankees" ancora per decenni, e magari, in qualche sacca, lo sono ancora. Grant scende gli scalini della veranda, si toglie lentamente il cappello, se lo mette sul cuore. Lee fa un lento saluto militare. Solo per qualche attimo, il vincitore e lo sconfitto si guardano negli occhi. Il sudista fa fare al cavallo qualche passo indietro, poi si gira, poi, sempre lento, si allontana. Da lì cambierà il destino dell'America e degli altri Paesi. La sequenza è larga e aperta, nell'ambito di un racconto svolto quasi tutto in interni semibui. La più bella del film.

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