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Lo sguardo ostinato

La gabbia dorata e il cinema del reale.
di Dario Zonta

In foto una scena del film La gabbia dorata - La Jaula de Oro, opera prima di Diego Quemada-Diez.

martedì 19 novembre 2013 - Focus

Qualche giorno fa, schiacciato come tanti altri dall'uscita monumentale dell'ultima commedia italiana, ha fatto capolino in alcune sale un film di produzione messicana e spagnola che racconta l'epica e tragica traversata di un gruppetto di ragazzini guatemaltechi verso gli Stati Uniti. Si intitola La gabbia dorata ed è l'opera prima di un regista spagnolo con alle spalle molta gavetta e qualche cortometraggio. Vogliamo tornare a segnalarlo, qui e oggi, perché pensiamo lo meriti, anche perché l'idea di cinema di cui si fa portatore questo piccolo-grande film torna ad essere in qualche modo centrale anche nei discorsi legati alla produzione indipendente italiana, evocati proprio in questi giorni in coda ai "festaval" romani (neologismo tra i più brutti di nuovo conio).

L'accento va sui metodi prima di tutto e poi sui risultati. Il regista Quemada-Diez non è un giovane esordiente, ha quaranta e passa anni ed ha svolto diversi lavori in produzioni sparse in tutto il mondo. Spagnolo, ha studiato all'American Film Institute e ha lavorato a vario titolo con molti registi diversi per impostazione e formazione. Tra quelli che lo hanno più segnato c'è Ken Loach di cui è stato assistente alla fotografia e dal quale, dice, ha preso molto. Altri registi lo hanno definito tra i quali Alejandro Inarritu, Spike Lee e Oliver Stone, e ancora Walter Salles e Meirelles. Come una spugna che filtra e trattiene solo quel che gli serve, Quemada ha preso quello che gli è sembrato giusto definendo poi un percorso autonomo e originale, lontano da vizzi e vezzi dei suoi più accreditati colleghi.

Il film d'esordio lo firma a quarantaquattro anni, un esordio maturo, si direbbe. Non ha avuto fretta Diego anche perché il "metodo" che ha seguito per girare La gabbia dorata è più vicino al cinema documentario che a quello di finzione (pure realizzando alla fine un film a soggetto e finzionale). Ha impiegato infatti dieci anni, Quemada-Diez per raccogliere le informazioni e per prepararsi a girare questo film sull'epica contemporanea dell'immigrazione clandestina sulle rotte centroamericane. Cosa ha fatto in tutto questo tempo?

Rifacendosi a modalità vicine all'inchiesta sociale, Quemada-Diez ha raccolto e realizzato centinaia di interviste a immigrati di diversa età e provenienza che hanno attraversato la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Li ha avvicinati da solo e senza alcuna strumentazione che non fosse il taccuino e la penna. Non ha voluto neanche usare la videocamera perché sostiene che sia un mezzo che altera la verità del racconto. Quemada-Diez ha iniziato a mani nude e con gli occhi ben aperti, pronti a trattenere informazioni e suggestioni. Non aveva con sé neanche il registratore, salvo in alcuni casi. La memoria che non si appoggia su supporti esterni vive in maniera diversa. Il grande Truman Capote era famoso per non prendere neanche un appunto durante le sue inchieste e le sue interviste. Si dice che tratteneva il 90 per cento delle informazioni. Occhi contro occhi, sguardo su sguardo. Queste interviste hanno rappresentato la base per la scrittura di un film "a soggetto", finzionale, eppure completamente basato sul solco di storie vere. Una scrittura dettagliata e piene di circostanze. Oltre alle interviste, il regista ha intrapreso lui stesso il viaggio sulle rotte dei migranti provando per tre volte varchi sempre diversi, scattando foto, scoprendo luoghi, facendo location e casting sulla strada. Questa lunghissima e dettagliata preparazione è servita come base documentaristica per un film epico e lirico, capace di trascendere il dato reale in quello ideale senza mai perdere il senso del possibile e verosimile. Risiede in questo equilibrio la caratteristica del film che non solo è uno dei migliori lavori che racconta oggi le rotte migratorie centramericane, ma è anche un potente romanzo di formazione che ha come protagonisti tre adolescenti.

Quel che vogliamo dire, tornando oggi su questo film, è rimarcare la possibilità di un cinema di scrittura e di "finzione" in grado di calarsi nel bagno del reale senza tradire nell'uno né l'altro, né la finzione né la realtà. Il "cinema del reale" di cui oggi si fa un gran parlare, è una forma di cinema documentario, un linguaggio e una metodologia. Esso non ha nulla a che fare con la finzione anche se i margini possono essere corrosi da pratiche trasversali, dichiarate o meno che siano. Raccontare il reale attraverso il cinema di finzione e a soggetto è un'altra cosa. La pratica dell'uno può andare a finire in quella dell'altra, ma le premesse e le intenzioni sono e devono essere diverse. La gabbia dorata è un film che ci dice bene il senso di questo limite, e anzi lo dichiara fin troppo, se pensiamo ad esempio a come il regista ha deciso di chiudere il film, unica pecca - certo non poco grave - di un'operazione importante. Il finale è tutto di "testa", di scrittura, fortemente metaforico, troppo spinto in una direzione negata durante tutto il film. Forse a Quemada-Diez gli è tornata in mente la cattiva lezione di qualcuno dei maestri sopra citati, o forse ha pensato fossimo bisognosi di quel tipo di chiusura, tra l'altro inverosimile. Eppure proprio questa forzatura di scrittura rende chiara e definita l'impresa che lo precede, che vale tutto il film.

Ecco, insomma, un esempio di cinema che racconta la realtà senza confondersi in essa tanto da non sapere più cosa è vero e cosa non lo è, domanda che al cinema è e deve rimanere senza senso, giacché tutto il cinema è la continua dimostrazione che il "reale" non esiste, ma solo la percezione di esso, e quindi la sua trasformazione.

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