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La politica degli autori: Paolo Sorrentino

Tra Servillo e Sean Penn, il regista-scrittore di mondi e maschere.
di Mauro Gervasini

In foto Paolo Sorrentino, regista di This Must be the Place, road-movie con Sean Penn.
Paolo Sorrentino (54 anni) 31 maggio 1970, Napoli (Italia) - Gemelli. Regista del film This Must Be the Place.

mercoledì 12 ottobre 2011 - Approfondimenti

In principio fu il verbo. Nel senso che il nostro imprinting con il cinema di Paolo Sorrentino è stato attraverso una serie di parole, dal suo primo film L'uomo in più (2001). Il monologo di un attore eccezionale, Toni Servillo, dieci anni fa non così noto a chi non frequentava il teatro. Parole taglienti e rare nell'informe brusio dei dialoghi del cinema italiano medio. «Io ho sempre voluto cantare. (...) Mi ricordo che avevo sei smoking, centocinquanta camicie, novanta paia di scarpe. Mi ricordo quando mi hanno messo le manette la prima volta. (...) È una stronzata che la cocaina ti scassa la memoria, sono trent'anni che la tiro e non mi sono dimenticato niente».
Così parlò Tony Pisapia, crooner neomelodico coprotagonista del film insieme ad Andrea Renzi, ex calciatore che sogna di diventare allenatore e si chiama come lui: Antonio Pisapia. Personaggi estremi, ai margini, in pieno decadimento. Il cantante in particolare è destinato a ritornare nel romanzo che Sorrentino ha scritto per Feltrinelli, "Hanno tutti ragione" (2010): nome diverso (Tony Pagoda) ma stessa fisionomia. E uguale gusto dell'autore per le "sottoculture", le tribù metropolitane o provinciali: i papponi, gli spacciatori, i musicisti da night club intossicati dal fumo, coi nasi arrossati dalla coca e le facce gonfie di vino. Le donne da una botta e via. Sorrentino è regista-scrittore di mondi e maschere. Si acquatta come un predatore che al posto degli artigli usa lo sguardo, e aspetta il momento giusto per colpire. Gli basta cogliere un semplice gesto per inventarsi un personaggio e un universo. Che cos'è, Il Divo (2008), se non la radiografia di una nazione attraverso l'incedere grottesco, sghembo, da teatro dell'assurdo del politico che meglio l'ha rappresentata per mezzo secolo? Minuzie, particolari che altrimenti verrebbero sfocati in fotografia e invece sono consegnati alla gloria da una narrazione cinematografica pop. Come la mano di Carlo Buccirosso (Paolo Cirino Pomicino) che disegna una traiettoria nell'aria, segue la musica, apre lo spazio alla macchina da presa e a un salotto in festa per la nascita del settimo governo Andreotti. Luoghi (o non-luoghi) barocchi o postmoderni, mai banali. Come le "stazioni di posta" di altri film. Titta Di Girolamo (Servillo) in Le conseguenze dell'amore (2004) vive in un albergo che pare un acquario. E se in L'uomo in più il destino dei due personaggi con lo stesso nome raddoppiava, in Le conseguenze dell'amore Sorrentino sminuzza, dimezza. Titta è l'uomo in meno, nessuno se ne accorge, e solo quando comincia forse a mancare a qualcuno, alla barista Olivia Magnani, l'uomo che non c'era, finalmente, c'è.

Invece la rockstar disfatta Cheyenne (Sean Penn) di This Must Be the Place, dal prossimo 14 ottobre in sala, attraversa gli Stati Uniti tra tappe sempre più precarie, superate le quali continua a non trovare mai quel che cerca veramente. Se stesso. La storia del film è quella di un uomo che alla notizia della morte del padre mai conosciuto sul serio, decide di andare a caccia di un vecchio nazista nascosto chissà dove in Usa, e che oltre mezzo secolo prima aveva seviziato il genitore. A essere profondamente sorrentiniane, nel film, sono due cose: il tema dell'erranza e la costellazione di luoghi e facce tra l'inedito e l'eccentrico. La dimensione "itinerante" di Cheyenne, che forza se stesso perché non vola mai (abita in Irlanda), è la stessa di Tony Pagoda/Pisapia, del Divo, dell'amico di famiglia Giacomo Rizzo nell'omonimo film. Il primo copre distanze fisiche e mentali come in un giro dell'oca, accumulando esperienze fino a toccare un apice immorale per poi tornare al punto di partenza (magnifica la scena di Tony P. in L'uomo in più che suona davanti a quattro gatti nel paesello uggioso e sperduto). Il Divo si muove storto eppure leggiadro tra i contorti corridoi del potere, ripresi sempre nei modi più barocchi (campi lunghi, perfino lunghissimi...). Il sarto strozzino di L'amico di famiglia (2006) aspira a una mobilità sociale (essere riconosciuto come persona importante, potente, così da far "dimenticare" il suo aspetto ripugnante) e sentimentale; illusione, quest'ultima, che gli sarà fatale. Cheyenne viaggia invece nel vero senso della parola, e più si sposta più scopre qualcosa che appartiene a tutti (la Storia, la memoria collettiva...) e quindi a se stesso. Deve essere questo il posto, recita il titolo del film ispirato a una canzone dei Talkin Heads. Ma nell'immaginario del regista napoletano non possono esistere luoghi definiti. Solo iperrealismi liquidi, isole semoventi alla deriva.

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