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Il cinema delle donne

Oggi 8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, parliamo con sei protagoniste del cinema italiano.
di Ilaria Ravarino

Lunetta Savino sul red carpet di Oggi Sposi di Luca Lucini, presentato fuori concorso alla quarta edizione del Festival Internazionale del film di Roma.
Lunetta Savino (66 anni) 2 novembre 1957, Bari (Italia) - Scorpione.

martedì 8 marzo 2011 - Incontri

Poche registe, dietro alle macchine da presa che contano. Tante scrittrici invisibili. Costumiste senza budget, attrici sottoutilizzate, produttrici eterno braccio destro, tecniche eccellenti costrette ad espatriare. Donne rare come i panda nei posti di comando e folle di lavoratrici che soffocano reparti deboli nelle trattative, deboli per definizione perché declinati al femminile. Il cinema italiano, che per primo nella storia degli Oscar ha avuto una regista candidata in cinquina (Lina Wertmuller, Pasqualino Settebellezze, 1976), sembra essere diventato un'industria quasi completamente rivolta al maschile.
Quante donne oggi ricoprono ruoli decisionali nel cinema? Come si può cambiare l'immagine della donna nella cultura se la donna non è creatrice di cultura?
Il cinema senza donne è un'invenzione senza avvenire?


Susanna Nicchiarelli: «Registe? No, individui»

C'è Lina Wertmuller e Liliana Cavani, ci sono Cristina e Francesca Comencini, Francesca Archibugi, Roberta Torre, Paola Randi, Tizza Covi. Ma per Susanna Nicchiarelli, regista di Cosmonauta e vincitrice nel 2009 del premio Controcampo Italiano alla Mostra Internazionale d'arte Cinematografica di Venezia, «le donne registe in Italia sono troppo poche».
Perché secondo lei?
In Italia c'è ancora diffidenza nei confronti di una donna che ricopre un ruolo decisionale, di coordinamento e gestione. E così, anche se sono le più qualificate, spesso le donne si fermano un passo prima. Si sentono meno realizzate e rinunciano, scelgono un altro lavoro o optano per una professione conciliabile con i figli... cosa che poi non riescono a fare, vista l'arretratezza delle politiche familiari in Italia. Ma questo non è un problema che riguarda solo la regia, l'emancipazione femminile è lenta in tutti i campi.
Esiste una nuova generazione di registe?
Nelle ragazze della mia età vedo più voglia di farcela. Molte hanno film in concorso nei festival di cortometraggi. Ma fin dove riescono ad arrivare?
C'è un modo di dirigere "al femminile", o sul set siamo tutti uguali?
Per dirigere un film serve più sensibilità che doti di comando. Donne e uomini hanno le stesse possibilità sul set, la differenza è solo una: saper fare, o non saper fare, il tuo lavoro. Se la donna regista crea diffidenza negli altri, non è un problema della donna. È un problema degli altri.
Dunque se una storia la racconta un uomo o una donna è la stessa cosa.
Se leggessi un libro dopo avergli strappato la copertina, quasi certamente non indovinerei il sesso dell'autore. Lo stesso vale al cinema. Non è giusto parlare di cinema al femminile. Trovo giusto invece dire che ci sono dei temi poco frequentati, che ricorrono quando c'è una donna dietro alla macchina da presa.
Per esempio?
Personaggi femminili approfonditi, diversi da quelli cui ci hanno abituate, cioè donne bidimensionali e anche un po' fastidiose. I personaggi femminili sono importanti quanto quelli maschili e sono fondamentali per le spettatrici. Le registe hanno la responsabilità di raccontarli al meglio. Mi vergogno ad ammetterlo, ma per la mia crescita un personaggio come Rossella O'Hara in Via col vento è stato importantissimo: una donna che cambia mariti, anche cattiva, che non si sottomette mai agli uomini... fantastica.


Ludovica Rampoldi: «Meno ghost writer, più sceneggiatrici»

Al cinema in questi giorni con Il gioiellino di Andrea Molaioli, Ludovica Rampoldi è una brillante scrittrice e una delle poche autrici che è riuscita a portare al cinema, con La doppia ora, «una protagonista ambigua, persino cattiva. E infatti c'è chi ha accusato il film di misoginia».
Quanto incidono, nei film italiani, le penne femminili?
Poco. Spesso le sceneggiatrici vengono chiamate solo perché serve il cosiddetto "punto di vista femminile". Ma se nel film c'è un personaggio che fa l'ingegnere, non è che chiamano un ingegnere per ascoltare il suo punto di vista... se un personaggio femminile non funziona, il problema va cercato piuttosto nella storia. Il punto è che anche nella nostra categoria gli uomini sono più liberi. Per noi questa è una situazione umiliante.
L'accesso alla professione è più difficile per le donne?
L'accesso no, non necessariamente. Ma è un dato di fatto che alle donne, più che agli uomini, si affidano lavori da ghost writer. Perché ci considerano più deboli.
Esiste un tipo di scrittura femminile?
È una domanda complessa. Diciamo che esiste un modo maschile di scrivere i personaggi femminili. Noi in gergo le chiamiamo "le tinche": fidanzate, mogli, ragazze rompiscatole che si vogliono accasare o donne idealizzate, proiezioni del subconscio maschile. Praticamente lo specchio dell'immagine della donna nella società italiana.


Lunetta Savino, «Mogli o amanti, per le attrici nessuna scelta»

A teatro con Isabella Ragonese nel dialogo femminista "Libere" di Cristina Comencini, prossimamente al cinema con Bar Sport di Massimo Martelli e presto ancora in scena con il recital di poesia erotica "La passion predominante", Lunetta Savino ha una soluzione all'eterno ritorno dei ruoli da moglie o amante: «Un progetto tutto mio. Atipico, originale. Con ruoli e centralità diverse dai film che girano in Italia. Non posso ancora anticipare niente, vediamo se la proposta passa...».
A lei di solito quali ruoli offrono?
O una parte in un film corale, di quelli che adesso vanno tanto di moda, o il ruolo della casalinga pugliese. Non ne posso più.
Vale per tutte le attrici?
Il mercato è asfittico e tutte abbiamo problemi analoghi, con la differenza che le giovani lavorano di più. Hanno più opportunità, si fa per dire.
Cioè?
Fanno la moglie tradita. O l'amante. Ci sono attrici che vengono chiamate sempre in questi ruoli. Ma tutte, dico tutte, appariamo in funzione di un protagonista uomo.


Grazia Colombini: «Le costumiste per gli uomini non contano. In tutti i sensi»

Per Grazia Colombini, costumista, una lunga filmografia: da L'amore probabilmente di Giuseppe Bertolucci a La fisica dell'acqua di Felice Farina, passando per I Malavoglia di Pasquale Scimeca e La pecora nera di Ascanio Celestini. Il suo reparto, costumi, è quello con la più alta occupazione femminile. Ma più che un paradiso, pare un lungo purgatorio: «Le nostre difficoltà derivano proprio dal fatto che siamo un reparto femminile. Gli uomini tendono a pensare che non abbiamo capacità di stima».
Cioè?
Cioè secondo loro noi non saremmo in grado di gestire un grande budget. Il rapporto con le produzioni è sempre complicato. Si dà per scontato che le donne non siano in grado di amministrare grandi somme di denaro. C'è diffidenza, un approccio diverso. Non a caso, molto spesso, i grandi film in costume li affidano agli uomini.
C'è qualche vantaggio nell'essere in maggioranza donne?
C'è un grosso svantaggio, che ha a che fare con lo sforzo fisico che prevede il nostro lavoro. Dobbiamo trasferire materiali, sollevare costumi molto pesanti, e l'aiuto dei manovali è percepito come una specie di regalo. Spesso ci sentiamo abbandonate.
Però il lavoro non manca.
Ma facciamo più ore rispetto agli altri reparti, e le trattative sono sempre più difficili. E questo perché? Perché siamo un reparto considerato femminile. E quindi più disposto a "regalare" ore di lavoro.


Maricetta Lombardo: «Fonico donna, sorriso obbligatorio»

Maricetta Lombardo, David di Donatello come miglior fonico di presa diretta per Gomorra di Matteo Garrone, è una delle pochissime donne a occuparsi di sonoro in Italia. «Ho iniziato al centro Sperimentale di Cinematografia – dice – nel corso eravamo in tre e tutti ci chiedevano: non è che cominciate a studiare suono e poi vi mettete a fare le attrici?».
In effetti voi foniche siete rarissime.
Io ho sempre avuto questo interesse e non mi spiego perché ci siano così poche donne nel mio settore. Certo è un lavoro faticoso, fisico, impegnativo. Che richiede spirito di abnegazione e anche 10 ore di lavoro al giorno.
Un lavoro maschile?
No, assolutamente unisex. E le donne foniche stanno aumentando.
Sul set si respira qualche differenza se il fonico è donna?
Il set è un ambiente maschilista. Le maestranze sono abituate ad avere a che fare con uomini e si infastidiscono se c'è una donna in un ruolo di potere. E allora ogni volta che devi chiedere qualcosa la devi infiocchettare, devi sorridere, essere per forza docile. Questa differenza proprio non mi va giù, è un'incredibile perdita di tempo.


Paola Freddi: «Il montaggio? Con le donne è più divertente»

Paola Freddi, montatrice, recentemente ha lavorato con Luciano Melchionna in Ce n'è per tutti. Una lunga carriera in un reparto «dove non si sentono grandi differenze tra uomini e donne. Almeno, non più».
Montaggio, area franca per le lavoratrici?
Adesso sì. Ma il cinema è stato e resta profondamente maschile.
Esiste una sensibilità femminile nel montaggio?
Non credo a queste storie sulla sensibilità femminile.
Allora non c'è nessuna differenza fra montatrici e montatori?
Per me è diverso montare con registi uomini o registe donne. Con le donne è più divertente.
Perché?
Perché c'è più fame di emergere, c'è la voglia di raccontare cose diverse, e perché da sempre le donne devono faticare di più. Senti la loro passione, la dedizione. Lavorare con loro è davvero gratificante.

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