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Horror Frames: Pontypool e l'horror virale

Il tema dei morti viventi nel cinema.
di Rudy Salvagnini

Da Romero all'inedito film di McDonald
Georgina Reilly . Interpreta Laurel Ann nel film di Pontypool.

martedì 26 gennaio 2010 - News

Da Romero all'inedito film di McDonald
In La notte dei morti viventi di George A. Romero - il film che ha dato inizio al filone moderno degli zombie - il motivo del risveglio dei morti non è chiaro. Si parla vagamente di radiazioni venusiane, ma sono notizie riferite dai telegiornali, con un grado di attendibilità pari allo zero. I morti viventi sono quindi una nemesi indecifrabile, una metafora per rappresentare le colpe e il degrado della società. Anche Hitchcock aveva, alcuni anni prima, adottato lo stesso approccio in Gli uccelli, per aggiungere mistero al mistero. Già in La notte dei morti viventi, però, chi viene morso da uno zombie si ammala e diventa ben presto zombie egli stesso. Il contagio si presenta quindi come virale. Il concetto è stato approfondito dallo stesso Romero con La città verrà distrutta all'alba, dove è un virus a far impazzire gli uomini sino a trasformarli sostanzialmente in maniaci assassini, in quelli che si potrebbero definire parazombie. Anche Il demone sotto la pelle e Rabid - Sete di sangue - un dittico quasi romeriano diretto da un Cronenberg alle prime armi, ma già più che interessante - presentano un contagio che riduce a sanguinaria pazzia chi ne è colpito. Sono gli esempi iniziali del sottofilone dei film di zombie senza zombie, senza cioè la presenza di esseri che possano tecnicamente definirsi morti viventi, ma che, a causa della malattia, si comportano in sostanza come gli zombie. In tempi più moderni, questa variante è stata rinverdita da 28 giorni dopo di Danny Boyle, che tra "omaggi" a Romero e a L'invasione dei mostri verdi ha suscitato notevole interesse.
Un esempio recente che vale la pena di vedere è Pontypool di Bruce McDonald, un film che mi auguro arrivi presto in Italia.
Lo stagionato Grant Mazzy (Stephen McHattie) conduce un programma in una radio della cittadina di Pontypool, in Canada. La produttrice del programma è Sydney Briar (Lisa Houle) e la tecnica di registrazione è la giovane Laurel-Ann (Georgina Reilly). Tra Sydney e Grant c'è un po' di maretta per la tendenza del conduttore a lanciarsi in strali sociopolitici, mentre lei vorrebbe che si attenesse a questioni più semplici e pratiche. Grant proviene da radio più importanti, ma è in ribasso, non può permettersi un altro licenziamento. Tenta però di fare le cose a modo suo raccontando come quella mattina, andando alla radio, una donna si sia avvicinata alla sua auto, dileguandosi dopo aver detto qualcosa di incomprensibile. Grant chiede agli ascoltatori cosa avrebbe dovuto fare. Intanto, un gatto è scomparso e i suoi proprietari hanno affisso avvisi per ritrovarlo. Tutto sembra appartenere a una quotidiana normalità, piccoli guai compresi. Poi però arriva una notizia strana: un centinaio di persone si è assiepato intorno alla clinica di un certo dottor Mendez (Hrant Alianak) e sembra volervi fare irruzione. La situazione precipita: l'edificio va in fiamme, ci sono dei morti. Tutto questo è raccontato in diretta radio da un testimone, non viene visto. La circostanza - come avveniva per le testimonianze che punteggiavano La notte dei morti viventi - aumenta l'aura minacciosa dell'accaduto, lo rende ancora più strano e inspiegabile. La minaccia monta attraverso frasi sconnesse, racconti frammentari in un crescendo che alimenta l'inquietudine senza mostrare nulla, mettendo lo spettatore nella stessa posizione dei protagonisti che, all'interno della stazione radio, percepiscono che qualcosa di terribile sta accadendo, ma non riescono a capire cosa. La notizia che un'orda di pazzi sta divorando persone inermi piomba su Grant assieme a particolari bizzarri e sconclusionati: non bisogna parlare come i bambini, non bisogna parlare ai familiari, non bisogna usare frasi retoriche. L'incubo è sulla città, ma resta esterno alla stazione radio, che sembra un'isola di calma, come l'occhio di un ciclone. Ma anche all'interno le cose non sono tranquille come sembrano.

La centralità del tema dell'informazione
Il film è sorretto da una cosa piuttosto rara di questi tempi: un'idea ingegnosa e originale, che si concretizza in un racconto adatto a chi apprezza l'horror speculativo e filosofico.
L'uso della radio - un mezzo di comunicazione persistente ma ritenuto in qualche modo antiquato nell'epoca del digitale e di internet - è azzeccato e rende l'idea della vicinanza nell'isolamento. Il contagio virale, inoltre, è di tipo molto curioso e la scelta della radio come "protagonista" è significativa anche in questo senso. In questo mondo dell'immagine, la radio è rimasta forse l'unico media solo di parole e suoni. E la cosa, in questo contesto, ha la sua importanza. Noi comunichiamo attraverso le parole, ma è la perdita di senso delle parole - l'incomunicabilità - ad avere un peso decisivo nell'economia del racconto.
Centrale nel film è anche - come spesso accaduto in horror recenti, da Diary of the Dead a Rec - La paura in diretta - il tema dell'informazione. In questo caso della necessità e della natura dell'informazione, quando è forse l'informazione stessa - per il modo in cui viene trasmessa - a essere (involontaria?) portatrice del male.
L'inizio è lento, claustrofobico, ambientato all'interno della stazione radio con il gelido inverno canadese che infuria all'esterno. La suspense e la tensione sono ben calibrate. La fase centrale mostra qualche lungaggine e qualche lentezza di troppo, ma l'ultimo terzo del film riprende quota dando anche qualche momento di spettacolarità.
Simpatici alcuni tocchi sarcastici sulle esigenze dei media, come quando, nell'approssimarsi dell'emergenza, a Grant - invece che approfondire la notizia, come lui vorrebbe - viene imposto di presentare il demenziale gruppo etnico-folcloristico Lawrence and the Arabians che si esibisce dal vivo nello studio.
Il finale potrà essere considerato deludente o bizzarro e riuscito: in effetti è aderente allo spirito del racconto, anche se non riesce a risolverlo con un guizzo inventivo pari a quello dello spunto.
Il veterano Stephen McHattie guida con carismatica efficacia un cast ridotto ma uniformemente buono. La regia di Bruce McDonald - con un lungo curriculum prevalentemente televisivo - è più che adeguata, ma in questo caso sembra di particolare merito la sceneggiatura, scritta da Tony Burgess.

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