Claude Chabrol è un attore francese, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 24 giugno 1930 a Parigi (Francia) ed è morto il 12 settembre 2010 all'età di 80 anni a Parigi (Francia).
Uno degli esponenti della nouvelle vague girò due film cult di quel movimento, Le beau Serge e I cugini (1958-59). Passò poi a una produzione commerciale di buon livello qualitativo come Landru (1963), Les biches (1968). Si affermò quindi come ritrattista acuto e coerente di una borghesia provinciale conStéphane, una moglie infedele (1968), Il tagliagole (1970), L'amico di famiglia (1973), Une partie de plaisir (1974), cruda indagine matrimoniale, e di Alice ou la dernière fugue (1977). Attentissimo agli aspetti formali e al linguaggio, che si accompagna a una padronanza assoluta del mezzo, si è cimentato con moltissimi generi senpre con risultati apprezzabili. Ricorderemo Violette Nozière (1978), Le cheval d'orgueil (1980), Volto segreto (1986), Il grido del gufo (1987), Un affare di donne (1988), Giorni felici a Clichy (1990), Madame Bovary (1991), Betty (1992), L'inferno (1994),Il buio della mente (1995) che ha fatto gaudagnare la Coppa Volpi alle due protagoniste Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire alla Mostra del cinema di Venezia del 1995, per la migliore interpretazione femminile. Ancora la Huppert è stata la protagonista di Rien ne va plus con M. Serrault (1997). Nel 1998 gira uno dei migliori film della sua lunga carriera, Il colore della menzogna, lucido e amaro ritratto della borghesia provinciale francese.
Non c'è cosa più bella dell'apologià degli oppressi, la vera estetica è la difesa dei deboli e dei diseredati.
Gerhard Zwerenz
Giacché tutti gli errori si pagano in questo mondo, anche quello di aver fatto passare delle larve, o delle mezze larve, per uomini.
Theodor Fontane
Fin dall'inizio, lui è sempre stato lo stesso. In fin dei conti, a tutt'oggi non è cambiato affatto. Perché quando Francis cammina per le strade di Sardent, il paese natale che non ha più rivisto da tanto tempo, Marie gli dice con insolita perspicacia: lui sta guardando gli abitanti del villaggio come se fossero degli insetti. Il film era Le beau Serge, anno 1957. E Chabrol, che si identificava con Francis, mentiva nel far terminare il film con la redenzione del suo eroe. Chabrol stesso non si è redento. Tutt'altro. Che altrimenti avrebbe portato avanti, nelle sue opere successive, quel finale del Beau Serge in cui Francis si convince dell'importanza della solidarietà. In quel caso credo proprio che sarebbe diventato, chissà, un grande uomo di cinema. Visto retrospettivamente, dall'oggi, il finale del Beau Serge mostra un'attitudine forzata, di un cristianesimo irrigidito. E Chabrol non è diventato, un grande uomo di cinema, nonostante le molte cose piacevoli, ben riuscite, e un paio di grandi film.
Lo sguardo di Chabrol non è quello dell'entomologo, come si è affermato spesso, piuttosto quello di un bambino che tiene chiusi in una gabbia di vetro un certo numero di insetti e che osserva di volta in volta stupito, impaurito o contento lo strano comportamento delle sue bestioline. A seconda dei suoi stati d'animo, chissà cosa avrà mangiato», se ha dormito bene, il ragazzo modifica il suo atteggiamento rispetto agli insetti. Dunque è instabile di fronte al suo oggetto. Non fa ricerca. Che altrimenti potrebbe e dovrebbe scoprire le cause del comportamento brutale dei suoi animaletti, e spiegarcele. A prescindere dal fatto che esistono tanti altri insetti meno appariscenti, meno luccicanti, una schiacciante maggioranza di piccole bestie incolori che creano le condizioni necessarie alla vita delle altre, quelle più belle. Ma questo il bambino-Chabrol non lo vede, perché non sta facendo ricerca, lui guarda soltanto, e si lascia accecare dai bagliori colorati, dagli insetti speciali; e siccome non vede tutti gli altri, non può nemmeno capire il comportamento delle sue creature preferite. Così, col tempo, diventa sempre più cieco il bambino, ma anche furioso e disperato di quella cecità, perché di una cosa per lo meno si accorge, della sua inadeguatezza: difatti quel bambino, un giorno, girerà un film con le sue bestioline, si intitolerà Sterminate Gruppo Zero (Nada, 1973): insignificante.
C'è sempre un destino tragico che colpisce e una buona sorte che all'ultimo momento fa continuare la storia. Perché Paul uccide suo cugino Charles? Già - il destino. Del tutto casuale, per di più. Infatti poteva anche andare diversamente, la pallottola avrebbe potuto colpire Paul, quando Charles nottetempo gli spara addosso. Non sarebbe più stata una storia idiota, per lo meno. E invece l'idiozia resta, fino alla fine, con limpida coerenza, e non è altro che stupidità. Cos'è importante in questa coerente stupidità, la stupidità o la coerenza? Che c'entra, cosi com'è, il plot fa più effetto sullo spettatore rozzo, che si suole disprezzare. Che ne è del fascismo della Francia del 1958? I cugini (Les cousins, 1958) è un documento d'epoca, ma l'epoca non c'è, nemmeno il valore documentario; il fascismo nella Francia del 1958 non c'entra affatto con Wagner, né con un ebreo a cui gridano "Gestapo". Certo, nel film uno studente di colore viene apostrofato duramente in due occasioni, bisogna concederlo. Chabrol ha avuto il coraggio di mostrarlo. Ma dove sono finite le centinaia di migliaia di nordafricani sfruttati e discriminati a Parigi? D'accordo, non si può rinfacciare a qualcuno quello che non ha fatto. Solo che le cose che in Chabrol non troviamo mi sembrano le più importanti. C'è pur sempre l'odio tra Therèse e Henri Marcoins. L'odio, in A doppia mandata (A doublé tour, 1959), ha messo le radici nel loro lungo matrimonio. È già qualcosa. Qualcosa di meglio, a ogni modo, del muto disprezzo di Paul per Charles in I cugini, e non è proprio vero che "alla lunga vada a sfociare in un'altra follia, stavolta collettiva: quella del fascismo" ("Cahiers du Cinema", 1960). Sono ben altre le cose, mio dio, che portano al fascismo, altro che il disprezzo di un furbetto per il suo barboso cugino.
L'odio ecco, in A doppia mandata: il matrimonio che annienta l'individuo, perché è davvero disumano; l'educazione dei figli all'interno della famiglia e i risultati che saltano fuori quando i bambini crescono immancabilmente... questo sarebbe di per sé un bel soggetto. Anche per una bella favola, certo - il film non deve essere la copia fedele della realtà. Ma se poi lo si trasforma in menzogna? Chabrol non ha torto: su quella ristrettissima classe sociale che è la grande borghesia, del resto inaccessibile ai più, si possono tranquillamente raccontare frottole. Ma forse lo spettatore non ha poi anche la possibilità di ragionare su quelle frottole, ripensando alla propria e ben diversa dimensione della realtà? Quelle storie, non hanno in fin dei conti qualcosa in comune con la vita coniugale dei nostri genitori? Non c'è sempre ipocrisia in chi avanza pretese di possesso? E però, il fatto che i nostri genitori sentano quel bisogno di possesso, non è ascrivibile a loro come colpa, la colpa sta nell'educazione che hanno ricevuto, dunque andrebbe chiarito il perché di quell'educazione...
Chabrol non vede le cose in questo modo. Chabrol è, indiscutibilmente, e come testimoniano i suoi ultimi film, un difensore del matrimonio. E il matrimonio è innanzitutto un pilastro portante dello stato. Ma Chabrol è contro l'ipocrisia nel matrimonio, contro la pretesa di possesso, invece di essere contro il matrimonio. Semplice per lui, l'importante sono i sentimenti, i bisogni. Mai che si interroghi sui bisogni veri, sui sentimenti autentici. Non c'è il minimo accenno al fatto che noi acconsentiamo a credere autenticamente nostri certi bisogni che sono 11 proprio per illuderci. In sé tutto sembra funzionare. Il disordine che si produce è frutto dell'irrazionale, in Chabrol, non come conseguenza necessaria, come effettivamente è in questo sistema sociale. Richard Marcoux (in A doppia mandata], che ha avuto un'educazione sbagliata e diventa assassino, non diventa assassino per colpa di quell'educazione ma perché, oltretutto, è anche un debole di carattere. E qui sta la menzogna di Chabrol, una menzogna che impedisce allo spettatore di confrontare la favola con la sua realtà. Ma allora perché fare un film? Solo per soldi? Eh già, il cinema è un'industria. E far soldi è un'esigenza tutt'altro che deprecabile, ma è proprio l'unica? E poi non sono pericolosi questi film che istupidiscono, che tolgono coraggio invece di dartelo, che imbrogliano le cose invece di chiarirle? Quante domande, il cinema è arte, e cosa si può pretendere dall'arte? Forse...
Chabrol dev'essersi accorto del vicolo cieco in cui si era cacciato con A doppia mandata, se poi si è ritagliato un suo spazio con grande destrezza. Infatti girò anche Donne facili (Le bonnes femmes, 1959/60). E non ebbe fortuna. Donne facili è l'unico film in cui Chabrol ci presenta quasi sempre degli esseri umani, non solo ombre. Chabrol ha finalmente un barlume di tenerezza per i suoi personaggi, una tenerezza che ben di rado mostrerà in seguito, e solo verso personaggi isolati, come quelli interpretati da Michel Bouquet. Ma in questo film si mette con i suoi personaggi nelle più tremende e ripugnanti situazioni, e resta sempre al loro fianco, il bambino ha infilato la mano nella gabbia di vetro, tra gli insetti. Ovviamente quelli l'hanno punto. E lui non oserà tanto presto rimetterci le mani, con quello che è successo. Fino ad oggi almeno non ha più tentato. Ne ha pescato fuori qualcuno, è vero, paticolarmente bello, e l'ha accarezzato con prudenza. Ma non ha fatto passi ulteriori. La critica gli ha appioppato un bel colpo. E il pubblico si è uniformato ai critici. E stranamente, nella loro stroncatura, i critici hanno in apparenza preso le parti dei personaggi che Chabrol, in questo film, ha per la prima volta amato sinceramente. Io credo che loro, i critici e il pubblico, disprezzassero quelle donne, e hanno voluto punire Chabrol per il fatto che lui ha voluto svelare a loro stessi l'oggetto e l'entità del loro disprezzo. Donne facili oltretutto è un film rivoluzionario, perché attizza la rabbia contro un sistema che condanna gli esseri umani alla loro rovina. È un film che fa chiarezza: bisogna che le cose cambino. Chabrol, purtroppo, era costretto dal suo stesso metodo di lavoro a fare film con grossi finanziamenti, altrimenti con meno soldi avrebbe realizzato film più economici, imparando a lavorare ai massimi livelli anche con un budget limitato. E avvenuto il contrario. Ha imparato a fare, con budget enormi, film scadenti. Un modo anche questo.
Dopo Donne facili, Chabrol ha cercato di realizzare una specie di film di serie B, che però soffrivano palesemente di poca azione e di troppa raffinatezza. Il pubblico, per le meno, non gradiva Les godelureaux (1960), L'oeil du malign (1961), Ophelie (1961/62) e Landru (1962). Di questo periodo, il secondo di Chabrol, io conosco solo Landru - strano mostro, il film. A immagini da reportage della prima guerra mondiale vengono affiancate scenografie teatrali; il Landru della storia, giustamente inteso non come mostro ma come una persona che in un'epoca feroce si comporta ferocemente, Chabrol lo porta a tali estremi con Charles Denner, che nessuno crede più alla storia. Tutto è talmente contraddittorio che alla fine sembra di non aver visto "niente", di non aver imparato niente. Il piacere tipico dello spettatore, quello di anticipare la storia, viene sempre annullato dal gusto del nauseabondo in cui Chabrol indulge, fino a farne una mania che annoia, al punto che anche il film diventa noioso, perché si riduce a quello che mostra; il film e le immagini, del resto estremamente belle, diventano ostili. Ciò significa che Chabrol, in quel periodo, ha visto nel suo pubblico, assai più radicalmente che in seguito, un nemico. E a quel punto, perché mai si dovrebbe essere generosi con un nemico? Dal 1957 al 1962, Chabrol ha fatto almeno uno, se non due lungometraggi all'anno. Nel 1963 non ha realizzato che uno sketch di diciotto minuti; sicché ci si può spiegare il periodo seguente, il terzo, anche col fatto che doveva guadagnare. Ma, per l'appunto, anche per quello. Non è cosa di poco conto che abbia voluto girare due "Tigri", io aggiugerei, due film di spionaggio perfettamente omologhi alla difesa dello stato, e nei quali non fa nemmeno lo sforzo di uscire dai canoni del genere poliziesco, ma solo quello di uniformarsi. Terence Young ci riesce molto meglio di lui. Chabrol non aggiunge nulla di suo al genere. Fa anche fin troppa fatica nel volerlo imitare, il risultato è debole di un paio di lunghezze, lo stesso dicasi per il divertimento, che in film del genere dovrebbe essere assicurato. Resta solo il connubio tra Chabrol e la repubblica francese. La Francia non ha in Chabrol una voce critica, un Balzac del XX secolo, checché lui creda, come dimostrano almeno i suoi film; la Francia ha in Chabrol un cinico del tutto interno al sistema, un cinico che ha una grande nostalgia dell'innocenza, dell'identità smarrita. E da questa strana combinazione nascono poi film come Marie Chantal contro il dr Kha (Marie-Chantal contre le Docteur Kha, 1965), La ligne de demarcation (1966) e Criminal story (La mute de Corinthe, 1967). Film ingenui, con eroi ingenui, apparentemente. L'ingenuità regge ancora nei due film di spionaggio Marie Chantal e Criminal story, dato che il genere di spionaggio è essenzialmente naìf ; ma ne La ligne de demarcation, che ha un suo rapporto con il reale, l'ingenuità diventa farsa. Non è un caso che Chabrol abbia affidato la sceneggiatura al colonnello Rémy. I protagonisti della Resistenza sono diventati nel dopoguerra i rappresentanti più reazionari
di un astratto moralismo di stato. E Chabrol ci è cascato in pieno con la sua ricostruzione distaccata e precisa. Tutti bravi questi francesi, da far rizzare i capelli, e anche il nobile codardo, che per tutta la durata del film trova insensato opporsi ai tedeschi nella clandestinità, è autorizzato nel finale a riscattarsi nella morte. E i bravi francesi si mettono anche a intonare frettolosamente L’Internazionale, per poi concludere con la Marsigliese. Non serve, a questo punto, fare una panoramica sulla bandiera uncinata; qualsiasi accenno problematico alla Francia del dopoguerra è già sparito lungo le belle acque del Reno. Gli altri due film, con Marie Chantal e Shanny eroine del gioco del caso, sono pur sempre carini, per lo meno sono belle le due interpreti, Marie Laforèt e Jean Seberg. Non c'è molto di più, benché qualcuno abbia voluto avventurarsi in riflessioni metafisiche sul messaggio che vuole esprimere Chabrol nel mettere sulle spalle della borghesuccia Chantal tutto il potere dell'umanità intera. Affidare le redini del mondo alla piccola borghesia, o qualcosa del genere? Chissà...
Chabrol non ha potuto girare la continuazione già prevista di Marie Chantal. Per fortuna. La sua spassionata asserzione di aver lavorato, in quel periodo, solo per la pagnotta non mi convince del tutto. Del resto con ben cinque film, e in più due continuazioni già programmate, in quattro anni uno sa quello che fa. E Chabrol sapeva anche quello che avrebbe potuto fare. Si può uscire dai canoni di un genere, si può trasformare tutto nell'esatto contrario. Basta pensare agli happy-end obbligati dei film hollywoodiani: li si può pensare in un modo o in un altro. Chabrol ha fatto la scelta più facile, quella di conformarsi. E lo ripeto, credo che sapesse quello che faceva.
Con Delitti e champagne (Le scandale, 1966), anche se realizzato prima di Criminal story, Chabrol entra nel quarto periodo della sua produzione, in quello che tutti associano per eccellenza al nome di Chabrol. Portando tutto a un unico denominatore, si potrebbe affermare che Chabrol, d'ora in avanti, non fa che rispolverare accuratamente i valori borghesi. La questione è: li rispolvera per superarli oppure per conservarli? Il secondo caso, credo, corrisponde a verità. Chabrol è travagliato dal disordine e dall'inintelleggibilità delle cose; lo rattrista che gli uomini siano così cattivi. Non sono mai le situazioni e i sistemi sociali, quelli che rendono gli uomini così come sono, a interessare Chabrol, ma il risultato finale, magari se è sufficientemente pittoresco. Proprio qui sta l'aspetto disumano. I film dell'ultimo Chabrol sono disumani nel loro fatalismo, nel cinismo e nel disprezzo che mostrano per gli uomini. E le eccezioni confermano la regola. Stranamente le storie passate in un contesto irreale sono adesso, contrariamente a prima, le più sopportabili, Les biches (1967) e All'ombra del delitto (La ropture, 1970). E Il tagliagole (Le bucher, 1969) è, nonostante tutto, un gran film, dove Chabrol costruisce per la prima volta una storia, partendo da uomini veri. E sarà, purtroppo, anche l'ultima. È l'unico film che non rovesci addosso allo spettatore unicamente assurdità e verità inappellabili. Cioè quello che succede in tutti gli altri film. Chabrol da addosso al suo pubblico, e lo fa con un livello di perfezione che è pressoché irresistibile. È proprio questo a renderlo pericoloso. Preso in sé, il suo universo funziona a meraviglia. Ma il suo mondo non ha nulla da spartire con quello di coloro che, acquistando il biglietto d'ingresso, finanziano i suoi film. Ma lui fa finta di nulla. Tranne ovviamente Les biches e All'ombra del delitto. Nella loro compiuta separatezza, questi due film sono cosi distanti dal reale che alla fine, in un certo senso, sortiscono l'effetto contrario. Non guasta più che al-posto di esseri umani ci siano soltanto ombre. Ombre tutte avvolte da un'indefinibile glamour. Ombre in grado di reggere una storia. Chabrol è probabilmente il regista che sa dominare con la più compiuta perfezione il suo stile narrativo. Benché formalmente sconfini via via in un'imperdonabile trascuratezza. A volte si ha l'impressione che Chabrol abbia appena fatto la scoperta dello zoom, il più misero degli strumenti filmici. In ogni film ci sono una o due carrellate incredibilmente belle; per il resto indicazioni di regia errate, immagini piatte, leccate, senza lavoro di luci o di colori. Poi due film veramente brutti, Trappola per un lupo (Docteur Papaul, 1972) e Sterminate Gruppo Zero. Lì siamo al fascismo puro. Non c'è dubbio. Un retaggio che viene da lontano e che un bel giorno salta fuori.
Il disprezzo di Chabrol si fa del tutto palese nei suoi quattro film per la televisione. Non si può lavorare per milioni di persone come fa Chabrol, senza idee e con tanta sbadataggine. Invece di vedere nella televisione uno, e forse il più arduo compito per un cineasta, lui la considera semplicemente un peso. Ma certo, anche in questo c'è una logica.
1975
Da I film liberano la testa, a cura di Giovanni Spagnoletti, Milano, Ubulibri, 1988
Critico, regista (e produttore), nasce il 24 giugno 1930 a Parigi. Il padre, farmacista e musicologo, è eroe della resistenza; la madre è originaria della Creuse, dove Claude ambienterà il suo film d’esordio. Cinefilo accanito, a dodici anni anima già un cine-club a Sardent (Creuse). Membro moderato del gruppo dei “Cahiers”, collabora alla rivista ma evita le polemiche. Con Eric Rohmer, nel 1957, pubblica il primo libro francese su Hitchcock, uno dei suoi registi preferiti insieme a Renoir e Lang. Innamorato della letteratura poliziesca, spirito ironico rigorosamente indipendente da ogni forma di ideologia e moda, in realtà Chabrol ha sempre fatto parte per se stesso.
Sfruttando un’eredità, nel 1957 si improvvisa produttore: Le coup du berger di Rivette, di cui è cosceneggiatore, e anche il primo lungometraggio di Godard. Riconosce molto modestamente che lo spunto del breve film di Rivette non è farina del suo sacco: infatti la storia si ritrova già in un film italiano di tre anni prima, Accadde al commissariato, di Giorgio Simonelli (Lucia Bosè fa la moglie che si fa regalare la pelliccia dall’amante, il marito che la bidona è Walter Chiari). Lo stesso anno, si autoproduce Le beau Serge, che uscirà solo un anno dopo insieme all’opera due (Les cousins). Sull’onda del successo dei Cousins (1959) gira il suo primo noir (A double tour, 1960), produce i due primi laboriosi lungometraggi di Rivette e Rohmer, e la sua opera quattro Les bonnes femmes. Gli infortuni cocenti di quest’ultimo film lo convincono a chiudere definitivamente con la produzione. Per pagare i debiti dell’insuccesso di Les bonnes femmes (un capolavoro!), dal 1961 al 1966 Claude gira alcuni film commerciali (la serie dei “tigre”, Le scandale, Landru). Il successo mondiale di Les biches (1966) gli consente di riprendere a trentasette anni una carriera di grande prestigio proprio in un momento in cui altri camerati della Vague mostrano segni di involuzione. Da quel momento la sua fama non fa che crescere: La femme infidèle, Le boucher, Les noces rouges, Nada, Violette Nozière, Masques, Une affaire de femmes, La cérémonie, Betty… sono delle opere memorabili, preziose testimonianze sulla società francese dell’era di Pompidou e Giscard.
Spirito aperto, libero, sarcastico, moralista-edonista, acuto osservatore, impietoso ritrattista ironico dell’evoluzione della società francese (in particolare della borghesia di provincia), Chabrol – il pragmatico ammiratore di Hitchcock e Lang – ha costruito un’opera monumentale, l’equivalente cinematografico di un Simenon, di uno Zola (fatte le dovute proporzioni). Con il talento del narratore di razza, Claude ha conservato un invidiabile sense of humor. Peccato che non abbia scoperto Noiret prima di Masques, la loro collaborazione ci avrebbe riservato dalle sorprese.
Da France Cinema 06