Jean Renoir è un attore francese, regista, scrittore, sceneggiatore, è nato il 15 settembre 1894 a Parigi (Francia) ed è morto il 12 febbraio 1979 all'età di 84 anni a Los Angeles, California (USA).
Secondogenito del grande pittore Pierre-Auguste, passò l'infanzia nell'ambiente artistico e bohémien della casa paterna, formandosi una preziosa cultura artistica e pittorica. Nel 1924 dirige il suo primo film, La ragazza dell'acqua (La fille de Jean), che era poco più d'una prova tecnica. Ma due anni dopo, con Nanà, tratto dal romanzo omonimo di Émile Zola, si afferma regista di grandi possibilità. Nel 1928 dirige La piccola fiammiferaia (La petite marchande d'allumettes), che denota una personalità artistica ancora in cerca d'una propria poetica. Fu solo con La cagna (La chienne, 1931), un forte dramma passionale, e con il successivo Boudu salvato dalle acque (1932), una feroce satira antiborghese, che elabora una sorta di realismo critico, che sarà la sua più vera matrice artistica. Sono gli anni che preannunciano il Fronte popolare: Renoir si trova in certo senso al centro del rinnovamento democratico dell'arte e della cultura, e cerca, sia pure attingendo ancora alle fonti tradizionali della letteratura francese, di dare della realtà umana e sociale della Francia degli anni Trenta una visione critica e personale. Dopo un interessante e stilisticamente nuovo La notte ai crocevia (1932), tratto da un romanzo di Georges Simenon, e una corretta traduzione visiva di Madame Bovary (1934), da Flaubert, realizza nel 1935 un film che anticipa modi, temi e forme di quello che sarà dieci anni dopo il neorealismo cinematografico italiano. Si tratta di Toni, basato su documenti tratti da una inchiesta giudiziaria condotta nell'ambiente degli immigrati nella Francia meridionale, che, nei limiti narrativi d'un dramma della gelosia, riesce a rappresentare una realtà umana e sociale in termini nuovi, utilizzando moduli stilistici, nella recitazione, nelle riprese e nel montaggio, che costituirono una vera e propria innovazione nel cinema francese di quegli anni. Il film è il primo di una serie di opere dichiaratamente impegnate, in cui Renoir, sempre più vicino ai gruppi della sinistra politica e culturale, fa un chiaro discorso critico, pur non rinunciando alla elaborazione personale del materiale artistico e alle componenti più genuine della sua poetica, sempre in bilico fra realismo e impressionismo, fra naturalismo e romanticismo. Anzi, in quello stesso periodo, realizza Una gita in campagna (1936), da Maupassant, rimasto purtroppo incompiuto, che riconferma non soltanto le sue grandi doti di narratore e di descrittore d'ambienti, ma anche il suo gusto per la letteratura tardoromantica e per la cultura dell'impressionismo. Sempre nel 1936 dirige Il delitto del signor Lange , un film di chiara ispirazione comunistica e di forte spirito antiborghese e anticlericale; il mediometraggio La vita è per noi , di propaganda politica in favore del Fronte popolare; Les bas-fonds (Verso la vita), libero adattamento dell'omonimo lavoro di Gorkij. L'anno dopo è la volta de La grande illusione, da molti considerato il capolavoro del regista, in cui l'antimilitarismo, il pacifismo, lo spirito democratico, il populismo romantico e un'ispirazione chiaramente socialista si fondono in un'unità narrativa e spettacolare di grande efficacia poetica. Nel 1938 La Marsigliese e L'angelo del male proseguono il discorso iniziato con Toni su due linee di sviluppo apparentemente divergenti, ma in realtà connesse l'una all'altra da un medesimo intento culturale. Il primo descrive alcuni episodi salienti della Rivoluzione Francese dall'angolo visuale del popolo, con risultati espressivi a volte straordinari; il secondo prende lo spunto dell'omonimo romanzo di Zola, per tracciare un forte ritratto di proletariato. Nel 1939, alle soglie della seconda guerra mondiale, Renoir realizza quello che può essere definito il suo canto del cigno, La regola del gioco, in cui le notazioni antiborghesi sparse nei suoi film precedenti trovano una compiuta rappresentazione drammatica, all'interno di una struttura poetica che anticipa, più e meglio di Toni, i moduli e le forme di gran parte del cinema degli anni '50 e '60. Con quest'opera termina la stagione migliore e più ricca di frutti della carriera artistica del grande regista, e comincia un lungo periodo di crisi espressiva che si concluderà parecchi anni dopo, nella ritrovata calma della contemplazione e della memoria. Interrotte le riprese di una Tosca, iniziata in Italia nel 1940, e trasferitosi l'anno successivo negli Stati Uniti, egli realizzò alcuni film di non grande valore. Tuttavia, tra le opere girate in America, una segnalazione merita L'uomo del Sud (1945), che si richiama, nel tema e nello stile, a Toni. Ritornato in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale, e ormai su posizioni estetiche, culturali e ideologiche alquanto lontane dai problemi umani, politici e sociali d'una Europa uscita dilaniata dalla guerra e avviata verso una profonda trasformazione del costume, Renoir si indirizzò verso esperienze in gran parte nuove, se confrontate con la maggior parte della sua opera d'anteguerra. Così Il fiume, girato in India nel 1949, è un film che affronta in maniera certamente originale e ispirata taluni problemi della civiltà indiana, ma si pone su un piano assai distaccato, quasi di contemplazione, molto differente dal realismo critico renoiriano degli anni Trenta. Discorso analogo va fatto per i film successivi, da La carrozza d'oro, girato in Italia nel 1952, a French cancan (1955) e a Eliana e gli uomini (1956), che ricostruiscono, con un gusto sottile e raffinato, ma anche con una certa stanchezza espressiva, il mondo del teatro, dei caffè-concerti e dell'aristocrazia dei tempi passati. La satira e l'ironia si stemperano nell'innocuo piacere senile delle ricordanze e dei primi amori, così come in Le strane licenze del caporale Dupont (1962) l'antimilitarismo e il pacifismo si fanno materia di tenue comicità. Più interessanti, soprattutto da un punto di vista tecnico-espressivo, parvero Il testamento del mostro (1959) e Picnic alla francese (1959), realizzati con tecnica prettamente televisiva, cioè facendo uso di parecchie cinecamere contemporaneamente e d'un montaggio selettivo a posteriori. Film di laboratorio, se si vuole, sebbene tutt'altro che privi d'un messaggio poetico e ideologico, chiari esempi d'una operosità artistica ancora vivace e fertile. Considerato a buon diritto uno dei più importanti registi del cinema francese, maestro indiscusso della nuova generazione dei cineasti raggruppati sotto l'etichetta della nouvelle vague, autore di alcuni film che sono tra i più significativi della storia del cinema, Renoir è stato, soprattutto nel decennio 1930-39, uno dei maggiori rappresentanti d'un'arte e d'una cultura strettamente legate alle istanze ideologiche e politiche d'una società in trasformazione, ricca di fermenti nuovi e rivoluzionari.
Gli ultimi tre film di Jean Renoir (che sono, si badi bene, tre «technicolor»), Il fiume, La carrozza d'oro, French can-can, mostrano chiaramente il desiderio del regista di staccarsi dai lavori densi, problematici, dialetticamente impegnati, del periodo che va dal 1930 alla sua partenza per Hollywood. Tra Il fiume e La bête humaine, tra La grande illusione e La carrozza d'oro, tra La regola del giuoco e French can-can c'è un abisso. Renoir ha saputo invecchiare; forse deluso dai risultati dell'enorme urto di forze che ha insanguinato l'Europa, Renoir vede ormai le cose dal punto di vista di chi, coricato su una collina in fiore, contempla il grottesco rincorrersi di certi ciclisti nella strada del falsopiano. È questa nuova serenità, questo diverso gusto della vita, questa improvvisa felicità «malgrado» e «contro»le cose cattive, questo ritorno al peccato originale che in-fondono nuove forze all'autore di due o tre puri capolavori. Si può dire, in un certo senso, che sia Il fiume come La carrozza d'oro, film intelligenti ma difettosi, hanno preparato il pieno successo di French can-can.
L'adesione dello spettatore delicato a French can-can può mettere addirittura in sospetto chi ami il ricordo del Renoir per così dire «front populaire», il, Renoir della Grande illusione e de La bête humaine. Allora il regista pareva iscriversi in una certa tradizione francese di ribellismo: zaffate fine di secolo erano presenti in questo regista moderno. Anche certi film sbagliati erano rivelatori: basta ricordare Verso la vita (1936), tolto da «L'albergo dei poveri» di Massimo Gorki, nel quale, come fu osservato, tutto era francese, gusto, chiarezza, intelligenza, mentre lo spettatore era tenuto a ricordare che tutto «doveva» essere russo. Per un po', allora, Renoir credette di essere nella linea dell'ineluttabile marcia in avanti delle classi diseredate lasciandosi trascinare in quel vago sentimentalismo da «siamo tutti fratelli» che caratterizza quegli anni tra tutti stravaganti. Dei quali si può dare il giudizio più difforme senza dimenticare tuttavia che furono propizi alla nascita delle opere più interessanti del nostro: La grande illusione, La partie de campagne (interrotto), il già ricordato La bête humaine, che venne in Italia con il grottesco titolo L'angelo del male, e infine La regola del giuoco (1939), curiosissimo film, da molti annoverato fra i capolavori e che ci lasciò interdetti al Festival veneziano del 1947. Ci asteniamo dal darne un giudizio confessandoci bisognosi di una seconda lettura.
Per capire a fondo il Renoir delle pellicole del dopoguerra, e per illuminare quelle di prima, serve un aneddoto sul padre, il grande Pierre-Auguste. Un giorno l'andò a trovare un amico che gli parlò della «Revue Bianche», la rivista che appoggiava calorosamente gli impressionisti. Il visitatore si accorse ben presto, che i fascicoli della «Revue», intonsi, servivano a equilibrare il cavalletto dell'artista. Jean Renoir è, come suo padre, sensibile ai sentimenti e refrattario alle idee. Ne La bête humaine, ripreso dal romanzo omonimo di Zola, è il patetico caso di un macchinista delle ferrovie cui un'ascendenza di ubriaconi ha messo nel sangue periodiche tentazioni omicide. Quando l'amorale, stolida amica, l'abbandona, il protagonista, libero dai freni inibitori, cede alla sadica furia di un sangue ammalato. Classico nella costruzione, recitato mirabilmente da Jean Gabin e da Simone Simon, il soggetto de La béte humaine, a nostro avviso il film più perfetto di Renoir, serviva oltre tutto al regista per mostrarci il mondo delle ferrovie; brulicante, fumoso, ferrigno, a contrasto con il mondo degli uomini della campagna. Il nostro ricordo va anche nostalgicamente al film interrotto La partie de campagne, mirabile sintesi di una cultura letteraria e di una cultura figurativa, di Maupassant e di Manet.
In French can-can, infine, l'aneddoto è quasi futile. Un certo Danglars, che ha il teatro nel sangue, si giova di una bellezza statuaria, la Belle Abbesse, per far correre la più bella gente di Parigi nel suo localuccio da quattro soldi. Intraprendente ed irrequieto com'è, Danglars medita migliori fortune. Scopre in un posto, frequentato da popolani e da birbanti, una fresca ragazza, Ninì, che balia con la leggerezza d'una piuma. Il protagonista intravede in lei la «stella»dello spettacolo che medita di allestire e che si chiamerà French can-can (e il ritrovo, Moulin Rouge).
Vince finalmente la riluttanza di Ninì che fa la lavandaia, e della madre di lei; ma il fidanzato della ragazza, un garzone di fornaio, vede rosso e minaccia guai. Più realistica, la Belle Abbesse, che era amante di Danglars, cerca di vendicarsi dell'abbandono, facendo soffiare il nuovo locale all'ex-amico, ora innamorato di Nini. Interviene allora un generoso principe balcanico, anch'egli innamorato di Ninì e che ha tentato di uccidersi per lei. La sera dell'inaugurazione, sorge un ultimo impedimento; Ninì s'accorge che il volubile Danglars l'ha sentimentalmente sostituita con una nuova scoperta, una «petite bourgeoise» che canta come un angelo. Disperata, ferita, Ninì rifiuta di guidare il French can-can, che è il «clou» dello spettacolo. Invano tutti la supplicano, compresa la Belle Abbesse, ormai ammansita.
Interviene allora Danglars che getta in faccia a tutti il mobile segreto della sua vita. «Che ne farai di Danglars?»dice il protagonista a Ninì che ha dichiarato che ballerà solo se l'uomo sarà tutto per lei. «Lo metterai in una gabbia con i canarini... Soltanto, ti metto sull'avviso, la faccenda non durerà molto. Qualche settimana sul prato a brucare l'erba insieme e poi tu non potrai più sopportarmi. Vuoi Danglars? Quale Danglars? Il Danglars dello spettacolo o il Danglars delle pantofole? Non ne ho mai messe nella mia vita. Mia povera Ninì, è un amante che vuoi? Telegrafa ad Alessandro (è il principe balcanico cui si è prima accennato). Non troverai mai di meglio. Un marito? Non hai che a soffiare nelle dita e Paul (è il primo fidanzato della ragazza) correrà al galoppo. Hai la scelta. Da un lato le perle, le pellicce, la grande vita... E dall'altro, la sicurezza, la vecchiaia in una stanza calda... Quanto a me, non posso offrirti nulla di tutto questo... (Indica col dito il proprio volto) Questo? Non ho davvero una: faccia da principe azzurro. E ciò che faccio, sai benissimo cos'è. Sei tu... (indica la bella Abbesse) e lei... (indica Arlette, l'ultima conquista) e quell'altra ancora...! E ce ne sono state altre prima. E ce ne saranno altre domani. (Con durezza.) Tu vuoi Danglars? Conta forse qualche cosa ciò che tu vuoi..., e ciò che voglio io? Credi davvero che questo pesi nella bilancia?... (Si sente il rumore del pubblico nella sala.)
«... È quello che essi vogliono che conta..., il mestiere consiste nell'essere al servizio degli altri. Sai tu perché sono triste nel vederti andar via? Non è affatto perché quelli là fracasseranno le poltrone se tu non appari... di questo, io me ne frego!... Ma è perché il mio mestiere perde un buon soldatino... (in un accesso di rabbia) E poi all'inferno! Ho creduto che tu fossi dei nostri. Se mi son sbagliato, vattene pure...»
Il discorso di Danglars ha effetto, Ninì si asciuga le lacrime e si prepara ad entrare in scena.
Abbiamo riportato con ampiezza la tirata di Danglars perché essa esprime molto bene ciò che è il pensiero del regista; la preoccupazione dominante è il mestiere, il gusto del lavoro ben fatto, rifinito a puntino, che dà soddisfazione all'onesto artigiano. Le donne (Renoir s'è sposato tre volte), il denaro, il successo passano in seconda linea. Il figlio del grande Pierre-Auguste sa che l'ottimo artista prova la stessa soddisfazione nel preparare i colori e la tela come quando attacca a dipingere o contempla il lavoro finito. Qualche volta può accadere che qualcosa della primitiva intuizione, del primo istinto, si perda per strada; ed allora avviene che Il fiume sembri un po' semplicistico malgrado il superbo squarcio che racconta la vita dei rivieraschi; o che una punta di freddezza si insinui nel perfetto congegno della Carrozza d'oro, innalzando una barriera ghiacciata tra lo schermo e gli spettatori. Ma la filosofia dell'autore è la stessa: una contemplazione serena e composta dei diversi aspetti della vita; una coscienza acuta ma non dolorosa della sempre rinnovantesi molteplicità del reale. In French can-can si sono sciolti tutti i residui. Tornando alla cara patria dopo tanti avvenimenti, tante emozioni, tante speranze, Renoir ha composto un'opera stupenda, nitida e brillante come le tele dei pittori coevi alla vicenda narrata. Se c'è qualche stanchezza, è solo un leggero dormiveglia subito annullato dallo strepito gioioso dei danzatori.
Anche le interpreti, due donne che appaiono in genere attrici mediocri, come Maria Felix e Françoise Arnoul, hanno funzionato a dovere, vicino all'incomparabile Jean Gabin, solo perché il regista le ha scelte. Inerti in altre opere, esse hanno acquistato vivezza perché educate alla santità dell'arte dal sereno spirito goethiano del caro maestro di French can-can.
È curioso infine osservare che dei molti film girati a Hollywood durante e subito dopo il periodo bellico, uno solo ha qualità d'arte sicure e si situa tra le migliori opere dei maestro. Si intitola L'uomo del Sud, ed è il racconto della lotta lunga, aspra, ma vittoriosa di un contadino americano contro la natura ribelle e la gente inospitale e malvagia. Vi corre il sereno ed energico ottimismo delle ultime pellicole, mentre è perlomeno curioso che la terribile «macchina»hollywoodiana abbia permesso all'artista europeo di andare talmente fuori del seminato. Esaltare l'ardire individualistico di una famiglia solitaria nel paese delle macchine, la capacità miracolosa delle mani di un uomo solo nella terra dei lavoro in serie, è stata senza dubbio per Renoir una singolare vittoria. Tra L'uomo del Sud e French can-can non c'è che la parentela di una vocazione: Danglars è un tenace contadino che ha scelto la polvere del palcoscenico invece di quella delle zolle.
Non è il risultato di un sondaggio, ma un sentimento personale: Jean Renoir è il più grande cineasta del mondo. Questo sentimento personale sono molti altri cineasti a provarlo e, d’altronde, Jean Renoir non è forse il cineasta dei sentimenti personali?
L’abituale divisione dei film in drammi e commedie non ha senso se si pensa a quelli di Jean Renoir che sono tutti commedie drammatiche. Alcuni cineasti pensano, mentre lavorano, di dover mettersi nei panni del produttore, altri nei panni del pubblico. Jean Renoir dà sempre l’impressione di essersi messo nei panni dei suoi personaggi ed é per questo che ha potuto offrire a Jean Gabin, Marcel Dalio, Julien Carette, Louis Jouvet, Pierre Renoir, Jules Berry, Michel Simon, i loro ruoli più belli, per non parlare poi di molte attrici alle quali riserveremo la parte finale di questa presentazione nello stesso modo con cui si riserva il meglio per il dessert.
Dei trentacinque film di Jean Renoir, almeno quindici sono ricavati da opere preesistenti: Andersen, La Fouchardière, Simenon, René Fauchojs, Flaubert, Gorkij, Octave Mirbeau, Rummer Godden, Jacques Perret e tuttavia vi si ritrova sempre e immancabilmente Renoir, il suo tono, la sua musica, il suo stile, senza che l’autore di partenza venga mai tradito; e tutto questo semplicemente perché Renoir assorbe tutto, comprende tutto, si interessa a tutto e a tutti.
Il nostro amore per tutta intera l’opera di Renoir – parlo a nome dei miei amici dei “Cahiers du Cinéma” – ci ha fatto pronunciare spesso la parola infallibilità, cosa che non manca di far irritare gli amanti dei “capolavori”, coloro che esigono da un film una omogeneità di intenti e di realizzazione che Jean Renoir di fatto non ha mai cercato, anzi. È come se Jean Renoir avesse trascorso il suo tempo migliore a evitare il capolavoro per quanto esso ha di definito e di immobile a vantaggio di un lavoro semi-improvvisato, volutamente non finito, “aperto”, in modo che ogni spettatore possa completarlo, commentarlo a modo suo, indirizzarlo in una direzione o in un’altra.
Un po’ come nel caso di Ingmar Bergman e di Jean-Luc Godard, con cui ha in comune la fecondità, ogni film di Renoir preso separatamente non segna che un momento del suo pensiero. È l’insieme dei suoi film che forma l’opera: di qui la necessità di raggrupparli in un festival per farli meglio apprezzare, come un pittore che raccoglie e fa vedere diverse tele antiche e recenti, diversi periodi, ogni volta che espone.
Chi tiene discorsi conoscerà dei grandi successi o dei grandi fiaschi a seconda che una sera sia in forma e un’altra no. Renoir non ha mai filmato discorsi, ma conversazioni. Spesso ha confessato quanto fosse influenzabile, sia che si trattasse di altri cineasti, Stroheim, Chaplin, sia che si trattasse di produttori, amici, autori adattati, interpreti. Ed è grazie a questo scambio continuo che sono nati trentacinque film, vivi e naturali, modesti e sinceri, di una chiarezza assoluta. È per questo che l’idea di infallibilità applicata a quest’opera in cui ogni simulazione è assente non mi sembra fuori posto sia che si tratti di un film che procede un po’ a tentoni come La nuit du carrefour (1932) o completamente riuscito come La carrozza d’oro (1952).
I primi tre film di questa retrospettiva hanno in comune il fatto d’essere interpretati da Michel Simon, che è probabilmente l’attore preferito di Jean Renoir: “La sua faccia è avvincente come la maschera di una tragedia antica”. È vedendo La chienne (La cagna, 1931) che potrete giudicare la verità di questo giudizio, ma in Boudu sauvé des eaux lo stesso Michel Simon vi mostrerà come può innalzare il comico fino al favoloso. Tutti gli aggettivi che evocano il riso possono essere impiegati per Boudu: comico, buffo, burlesco, strabiliante. Il tema di Boudu è quello del vagabondaggio, della tentazione di passare da una classe all’altra, l’importanza del naturale e il personaggio di Boudu è quello di uno hippy ante-litteram. E il risultato è tanto più sorprendente in quanto il film è tratto da un vaudeville piuttosto banale di René Fauchois.
Vedendo recitare Michel Simon gli spettatori hanno la sensazione di guardare non un attore ma l’attore. I suoi ruoli migliori furono ruoli doppi: Boudu è nello stesso tempo un barbone e un ragazzo che scopre la vita, Pére Jules in L’Atalante di Vigo è un rude marinaio e nello stesso tempo un raffinato collezionista, l’alto borghese Irwin Molyneux di Drôle de drame (La strana avventura del dottor Molyneaux 1937) scrive clandestinamente romanzi sanguinari e, per tornare a Jean Renoir, il suo Maurice Legrand de La chienne è nello stesso tempo un semplice cassiere sottomesso e, senza saperlo, un grande pittore. Sono persuaso che se i cineasti hanno sempre affidato a Michel Simon questi sconcertanti doppi ruoli (che egli ha interpretato magnificamente anche quando i film erano deboli) è perché essi hanno sentito che questo grandioso attore incarna nello stesso tempo la vita e il segreto della vita, l’uomo che sembriamo essere e quello che siamo veramente. Sarà Jean Renoir il primo a rendere questa verità: quando Michel Simon recita noi penetriamo nel cuore del cuore umano.
Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975
Affannato, incostante, confusionario e generoso, questo artista figlio di artista (è il secondogenito di Auguste Renoir), valoroso combattente nella prima guerra mondiale, ceramista nel dopoguerra in attesa di scoprire la sua vera vocazione, è una delle glorie più autentiche del cinema francese. Sposa la giovanissima vedova del padre (la modella Catherine Hessling), la dirige in alcuni film che passano inosservati. Deve attendere il sonoro, e la collaborazione di un attore bizzarro come Michel Simon, per trovare un suo mondo espressivo: prima con La chienne (1931), robusto dramma di ambiente popolare, poi con la sarcastica commedia Boudu sauvé des eaux (1932). Oscillando fra molte tentazioni, insiste con gli ambienti proletari per un dramma di immigrati italiani a Marsiglia (Toni, 1934), in cui qualcuno ha visto preannunci di neorealismo, per una formicolante rappresentazione della vita delle classi popolari (II delitto del signor Lange,1935) e, addirittura, per un film di propaganda comunista in occasione del «Front populaire» (La vie est à nous, 1936), ma affronta anche un tema come l'antimilitarismo trattandolo con un rispetto umano che gli permette di afferrare la verità dei sentimenti perorando la causa della pace senza retorica, in un film tra i suoi più luminosi (La grande illusione, 1937) e non esita a dar spazio, come altre volte ha fatto, alle sue inclinazioni letterarie con un film di notevole complessità psicologica (L'angelo del male, 1938, da La béte humaine di Zola). In un film storico come La Marsigliese (1937) non trova pane per i suoi denti, ma si riscatta splendidamente, due anni dopo, con La regola del gioco, ritratto feroce di una società borghese analizzata da uno che si diverte a denunciare le colpe dei suoi simili.
Esule in America durante la seconda guerra mondiale, Renoir poco ricava da un ambiente così estraneo (l'unico film accettabile, e accettato passabilmente dal pubblico, è L'uomo del Sud, 1945), e poco anche ricaverà sia da una incursione nell'esotismo (Il fiume,1951, girato in India) che da una fiacca rievocazione dei climi della commedia dell'arte, con una stonata Anna Magnani (La carrozza d'oro, 1952, da Prosper Mérimée). È evidente che, avendo ormai dato fondo a un eclettismo stilistico e tematico spesso gratuito, gli rimangono soltanto marginali divagazioni sui terreni sicuri della cultura nazionale come French Can-can (1954) o come Picnic alla francese (1959) che riprende i toni di un piccolo gioiello realizzato nel 1936 sulla scorta di un racconto maupassantiano (La scampagnata). Gli rimane anche, inatteso, un ultimo scatto d'orgoglio e di strafottenza, per Il testamento del mostro (1961), farsesco stravolgimento del Dr. Jekyll and Mr. Hyde di Stevenson, con un Jean-Louis Barrault scatenato.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995