Alberto Sordi è un attore italiano, regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, musicista, è nato il 15 giugno 1920 a Roma (Italia) ed è morto il 24 febbraio 2003 all'età di 82 anni a Roma (Italia).
Non ho rinunciato a niente, tutto quello che potevo fare l'ho fatto». Era piacevole parlare con Alberto Sordi, apprezzare il suo aspetto di prospero commendatore (Principe di Galles, cachemire, bellissime scarpe inglesi, sinfonia di marroni compreso il color mogano dei capelli accuratamente tinti), sentirlo raccontare le difficoltà degli inizi: «Ho ossessionato la gente, ho chiesto, cercato, insistito, colto tutte le occasioni, mi sono imposto con improntitudine. Nessuno ti regala mai niente: ci vuole costanza, passione, fatica, resistenza». Sapeva ancora fare benissimo la voce di Oliver Hardy con la quale aveva debuttato come doppiatore. Ricordava benissimo le difficoltà di dizione per cui gli consigliavano di cambiare mestiere («Non ce la facevo a dire ferro, carrozza, guerra; alla romana, pronunciavo fero, garozza, guera»). Rideva ancora del geniale «numero» di imitazioni ironicamente pessime del muggito bovino, dello starnazzare di gallina e del rombo d'aereo, a suo tempo accolte in teatro a Roma da sconcerto e gelida incomprensione; o delle strofette sceme ripetute quando era boy del varietà (il nome d'arte, Albert Odisor): «Pigliala allegramente/ arrabbiarsi cosa vale/ al fegato può far male/ e poi devi chiamare il dottor». Ricordava l'incanto della Mostra di Venezia dov'era arrivato nel 1942 coi I tre aquilotti di Mario Mattoli, con un personaggio di bel giovane, allievo pilota d'aviazione militare all'Accademia di Caserta: «Autografi, lusso, donne belle, credevo di sognare». Conosceva ancora a memoria certe scenette radiofoniche dei suoi programmi più fortunati, «Rosso e nero», «Oplà», «Vi parla Alberto Sordi», «Il conte Claro», di personaggi come Mario Pio, di canzoni oscillanti tra crudeltà e assurdità, «Carcerato», «Nonnetta». È degli Anni Cinquanta l'esplosione vera di Sordi: nello Sceicco bianco («una strana, amara felicità s'impadronisce di tutto il mio essere. Oh, er gabbiano...») e nei Vitelloni di Federico Fellini; in Un giorno in Pretura e Un americano a Roma di Steno, con il personaggio del ragazzo del dopoguerra infatuato dell'America; nellArte di arrangiarsi di Luigi Zampa, tratto da un racconto di Vitaliano Brancati, storia dell'arrampicatore sociale e politico voltagabbana siciliano Sasà Scimoni. Ha così inizio e dura per tutti i Sessanta, la serie dei tipi che compongono la maschera italiana di Sordi e la storia minore del Paese: Un eroe dei nostri tempi diretto da Mario Monicelli, lo scapolo, il marito, il vedovo, il seduttore, il moralista, il conte Max (chanteur, danseur mondain, habitué di nightclub). Il magliaro di Francesco Rosi emigrato in Germania, il soldato in coppia con Vittorio Gassman nella Grande guerra di Monicelli, l'ufficiale giovane nell'8 settembre 1943 in Tutti a casa di Luigi Comencini, il vigile arrogante e sconfitto, il giornalista di sinistra di Una vita difficile di Dino Risi, il mafioso, Guglielmo il Dentone diretto da Luigi Filippo d'Amico come un emblema della forza di volontà. E ancora il cinico medico della mutua dottor Guido Tersilli, personaggio sempre contemporaneo oltre trent'anni dopo che le televisioni ripresentano almeno ogni stagione; il prete povero di Contestazione generale di Zampa, il povero giocatore di carte dello Scopone scientifico di Comencini, l'infame commerciante d'armi di Finché c'è guerra c'è speranza. Aveva cominciato ad autodirigersi senza molti vantaggi, ma è di Monicelli la regia di uno dei suoi film più strazianti sulla realtà italiana, Un borghese piccolo piccolo tratto dal romanzo di Vincenzo Cerami; anche se non altrettanto forte, Tutti dentro rispecchia nel magistrato protagonista il marasma del nostro sistema giudiziario. Al di là delle truccature, la faccia di Sordi era sempre la stessa, immediatamente riconoscibile: a caratterizzare il personaggio bastavano piccoli tocchi, una pettinatura, un ciuffetto di capelli scomposti, un cappello, un make-up degli occhi, una postura della schiena o delle spalle, un passo svelto, soprattutto un talento inimitabile di comico meraviglioso. L'italiano Alberto Sordi aveva suoi tic verbali, modi di dire folgoranti, frasi ritmate, battute, un linguaggio appunto. Ad esempio, il piglio interrogativo tipico del dialetto romano, che esprime a volte l'incredulità («Che fa, marchese, spinge?», «Ma che, scherziamo?», «Ma chi sei?»); l'eloquio pomposo degli ignoranti che tentano d'apparire colti («Ecco or dunque», «Scusino il gesto infantile», «Riverisco con molta stima»); l'uso di interpellare gli altri con le definizioni di mestiere, come per confermare i ruoli, fissare le identità («Mi dici il vero, portiera?», «Vieni, intrepido bimbo», «Senta, agente dell'ordine»). È un meccanismo fantastico lo scambio, l'osmosi tra il dialetto romano e i «sordismi» più famosi che entrano a far parte di quel dialetto o degli usi linguistici nazionali e che come tali vengono assunti da altri attori comici, oppure che restano come citazione proverbiale in sé sufficiente ad evocare un clima, una situazione, un comportamento. E a riconoscere la sconfitta inevitabile, la resa al tempo che è passato: «E che dico? So' vecchio, so' vecchio, che non ce lo so?».
Da La Stampa, 26 febbraio 2003
È stato l’italiano tipico, il grandissimo Alberto Sordi, O almeno lo è statonegli anni più felici d’una carriera lunga e tutta fortunata. Era l’italiano del “facciamoci riconoscere!”: chiassoso, insicuro, provinciale. Tuttavia quell’italiano ha avuto qualità umane che faremmo bene a rimpiangere. E di certo oggi rimpiangiamo la genialità con cui 1’ “Albertone nazionale” ce lo ha raccontato, qua e là addirittura creandolo.
Italiano tipico Sordi cominciò a esserlo alla radio. Il “compagnuccio della parrocchietta” conquista il Paese nel ‘48, nella trasmissione Vi parla Alberto Sordi, e solo nel ‘51, con poca fortuna di pubblico, compare nel delizioso Mamma mia, che impressione! (Roberto Savarese, sceneggiatura di Vittorio De SiCa, Cesare Zavattini e dello stesso Sordi). Era, quel compagnuccio, una strana somma di perbenismo popolare da oratorio e di snobismo microborghese, di romanescherie e di patetiche imitazioni di quelli che avevano l’aria d’essere “raffinati’ modelli linguistici e di comportamento dell’Italia settentrionale.
Ma la strada dell’italiano tipico nei decenni seguenti non porta al nord, nonostante il titolo di un film del ‘53, Siamo tutti milanesi (Mario Landi, con Carlo Campanini, Carlo Croccolo e Ugo Tognazzi). L’Italia sovrastrutturale — per usare un aggettivo allora in voga — già ai primi degli anni 50 la si costruisce a Cinecittà. E' perciò sempre più “tipicamente” romana. Anzi, nel caso di Sordi è tipicamente “romanamericana”. E' cioè l’Italia che impazzisce di risate per Nando Moriconi, protagonista di Un americano a Roma (Steno, 1954): ragazzone in jeans e maglietta bianca, fra l’atletico e l’abbottatello.
Ne è passato, del tempo, dal compagnuccio. In mezzo ci sono stati un film con Totò ( Totò e i re di Roma, Steno e Mario Monicelli, 1952) e poi Federico Fellini ( Lo sceicco bianco, 1952, I vitelloni, 1953). Fa fatica a imporsi, il futuro italiano tipico. Sembra che il pubblico lo trovi antipatico. Poi, Steno chiede a Sordi di inventargli qualcosa, per allungare un suo film troppo breve ( Un giorno in pretura, 1953). Così nasce Nando, “ammerecano der Cansassiti”.
"A me m’ha bloccato ‘a guera. Si nun c’era ‘a guera, a quest’ora ero ner Cansassiti", piagnucola davanti al pretore — il grande Peppino De Filippo. Gli hanno rubato i vestiti mentre stava dentro” 'a marana”. Là ci rinfreschiamo "nell’estate afosa, noi lavoratori", dice. E mai parola fu usata più a sproposito: lavoratori. Già, perché, l’italiano tipico, quello che teme di farsi riconoscere, non lo è proprio, lavoratore.
Oggi — anni 50— il suburbio è il suo universo, ma le sue radici, una generazione o due fa, erano ancora nella campagna, nel mondo contadino. Nell’Italia della ricostruzione bisognerebbe diventar metropolitani, dinamici, “ammerecani” appunto. Ma c’è poco gusto. John Wayne, anzi “Gion Vain” è una gran tentazione, come il whisky, i pop-corn,i bicchieri di latte. Ma poi mamma, cioè no, mamy cosa ne pensa? E la pastasciutta? Bisogna buttarla, la pastasciutta?
Lo ricordiamo tutti con affetto divertito, Nando, seduto a tavola davanti a un’infame —"‘mazza che zozzeria" — ma “ammerecana” mistura di marmellata, yogurt, mostarda e latte? Di fianco, la provocazione volgare: fiasco di vino e pastasciutta. "Maccherone, me pari ‘n verme"., Poi il crollo: "M’hai provocato e io te distruggo... e io me te magno". Eccolo, l’italiano tipico da giovane. E Sordi gli dà tanta follia e genialità da farcene gustare l’ignobiltà tenera.
Geniale e folle Nando fu per tutti gli anni 50, cambiando nomi e ruoli. Qualche esempio: Accadde al commissariato (Giorgio Simonelli,1954), Il segno di Venere (Dino Risi, 1955), Un eroe dei nostri tempi (Monicelli, 1955), La bella di Roma (Luigi Comencini, 1955), Lo scapolo (Antonio Pietrangeli,1956), Mio figlio Nerone (Steno, 1956), Mi permette babbo (Mario Bonnard, 1956), Souvenir d’Italie (Pietrangeli, 1957).
Molto s’è detto del Sordi d’allora. Per qualcuno era “il solito Sordi”, per altri —pochi ma assennati — il Sordi migliore. C’era chi gli rimproverava d’esser reazionario e chi ne parlava come d’un progressista suo malgrado (così, pare, lo considerava Palmiro Togliatti). E se invece fosse stato semplicemente grande, oltre che “conservatore” sui generis?
Cosa avrà mai avuto da conservare, l’italiano tipico d’allora, l'”ammerecano” del Testaccio? Ma certo, aveva da conservare la sua umanità ex contadina, messa in pericolo dalla modernizzazione. Per questo, forse, l’Italia del cinema poté essere così splendidamente romana, conquistandoci tutti. In quale altra capitale, tra le tante del nostro Paese, la città sfumava nella campagna come a Roma? In quale altra capitale l’illusione d’essere metropoli si sposava con costumi, parole, sentimenti, cibi ex contadini come a Roma? No, non era difficile “riconoscerci” nel pusillanime e insieme quasi orgoglioso “non facciamoci riconoscere! ", slogan colmo di una paradossale e felice autocoscienza nazionale.
Come poi sia andata a finire, lo sappiamo. Di troppa ricchezza, di troppo immediata e rampante e volgare ricchezza s’è intristito il povero Nando Moriconi. Sordi ha continuato a essere bravissimo, in grandi film “tipicamente italiani” come La grande guerra (Mario Monicelli, 1959) o Un borghese piccolo piccolo (ancora Monicelli, 1977). E lo è stato anche in film minori come Il marchese del Grillo (regia dello stesso Sordi, 1981). Ma nella nostra memoria resterà la sua comicità ora crudele e ora casereccia degli anni50, fatta di “perfido” realismo caricaturale — e talvolta anche di magnifica forza surreale come in Piccola posta (Steno, 1955). E' questo il nostro Sordi, quello che oggi piangiamo, e non solo in senso figurato: il Sordi che si merita un posto accanto a Totò nella storia del nostro spettacolo, oltre che in Paradiso.
Da Il
È un pezzo della mia vita che se ne va...”: un’anziana signora sull’autobus commenta così, con le parole più semplici e naturali, la notizia della morte di Alberto Sordi. E non sono affatto parole di circostanza: la stessa persona aggiunge, con struggente malinconia, alcune considerazioni di profonda stima nei confronti del grandissimo attore che ha sparso buonumore sulle nostre vite per oltre mezzo secolo.
E il bello è che questa affermazione è vera per tutti, non solo per chi si ritrova i capelli bianchi. I più avanti negli anni ricordano in primo luogo le trasmissioni -radiofoniche dell’ immediato dopoguerra, quella voce stridula che rappresentava per milioni di radioascoltatori un appuntamento imperdibile nell’Italia pre-televisiva; ma anche chi è giovanissimo, quella voce la conosce e la ama, anche se probabilmente non sa il nome del suo “proprietario”. Alberto Sordi era infatti, come è arcinoto, il doppiatore “ufficiale” di Oliver Hardy, l’amatissimo Ollio che, con il fido compagno Stanlio, ha superato il gap tra le generazioni, accomunando (com’è stato destino di un altro formidabile comico, l’eterno Totò) nonni, padri e nipoti.
La voce, ecco uno dei segreti del successo di Albertone. Stridula,petulante, insinuante, capace di salire e scendere di tono in modo repentino: al servizio di quei personaggi che si succedevano a ritmo vorticoso (circa 190 i film da lui interpretati), delle loro bassezze, miserie, pochezze; ma capace anche di assumere toni seri, importanti, allorché, così come quegli italiani che sempre rappresentava, era necessario, almeno una volta nella vita, dimostrare coraggio. Vedi nell’indimenticabile finale di un’indimenticabile pellicola, La Grande guerra di Mario Monicelli: un’opera che dimostrò la miracolosa capacità, in quel momento d’oro del cinema italiano, di unire commedia e tragedia, brillanti invenzioni romanzesche e cupo dramma della Storia.
Grande cinema, grandi registi, grandi attori. E grandi sceneggiatori. Sordi non sarebbe stato il Sordi che abbiamo tanto amato, che ci ha tanto divertito, e che tanto ci ha messi alla berlina senza la scrittura attenta di uno che “lo conosceva bene”, che ha contribuito più di ogni altro alla creazione delle sue maschere: stiamo parlando di Rodolfo Sonego, quasi suo coetaneo, scomparso nell’ottobre del 2000. Che coppia, quei due! A partire da ll seduttore, del 1954, il sodalizio è andato avanti per decenni, sfornando titoli su titoli, prevedendo, assecondando, guidando i gusti del pubblico, nel tempo in cui il cinema italiano il polso del mercato ce l’aveva per davvero. Sono gli anni di Un eroe dei nostri tempi, Il moralista, Il vedovo, Il vigile. E scusate se è poco.
Da Il Sole 24-Ore, Domenica 17 febbraio 2003
Una vita in scena. È stato questo il percorso di Alberto Sordi, morto oggi a Roma per una grave malattia. Nato il 15 giugno 1920 a Roma, nel cuore di Trastevere, figlio di Pietro, concertista al Teatro dell'Opera di Roma, e di Maria, maestra elementare. Si esibisce davanti al pubblico fin da bambino, girando la penisola con la compagnia del Teatrino delle marionette. Poi canta come soprano nel coro della Cappella Sistina e a 16 anni incide un disco di fiabe per bambini.. Dopo aver abbandonato l'Istituto d'Avviamento Commerciale 'Giulio Romano' di Trastevere (si diplomerà in seguito studiando da privatista), si trasferisce a Milano per frequentare l'Accademia dei Filodrammatici. Ma a causa del suo spiccato accento romano, Sordi viene espulso dalla scuola e soltanto nel 1999 riceverà dall'Accademia un diploma honoris causa in recitazione, quasi una sorta di risarcimento. È il 1936, Sordi tenta senza successo la strada del teatro leggero, poi torna a Roma, dove partecipa come comparsa al film Scipione l'Africano. L'anno successivo vince un concorso della Metro Goldwin Mayer come doppiatore di Oliver Hardy e debutta nell'avanspettacolo proprio in qualità di imitatore di Stanlio e Ollio, con il nome d'arte di Albert Odisor. Lungo gli anni Quaranta, Alberto Sordi è impegnato soprattutto in teatro e nel doppiaggio, prestando la sua voce anche a Robert Mitchum e Anthony Quinn, nonché a Marcello Mastroianni per il film Domenica d'agosto. Il cinema gli concede solo piccoli ruoli, mentre alla radio ottiene un successo straordinario con Rosso e nero e Oplà, presentati da Corrado, e poi con il programma Vi parla Alberto Sordi. Nel 1950 ottiene finalmente un ruolo da protagonista nel film di Roberto Savarese Mamma mia, che impressione!, l'anno successivo Fellini gli regala la grande occasione con la parte dello sceicco romanesco ne Lo sceicco bianco. Nel 1953 Sordi conquista definitivamente il pubblico e la critica con I vitelloni, sempre diretto da Fellini, e con Un giorno in pretura di Steno, il film che vede nascere il personaggio di Nando Moriconi, l'americano, protagonista poi del celebre Un americano a Roma (1954). Intanto, la sua fama diventa internazionale e nel 1955 il presidente degli Stati Uniti Truman gli concede le chiavi di Kansas City e la carica di Governatore onorario della città, per la propaganda favorevole all'America promossa proprio dal personaggio di Moriconi.
La carriera cinematografica di Alberto Sordi, da questo momento in poi, è una lista interminabile di titoli, con film presto diventati di culto e pellicole che hanno segnato la storia del costume del nostro paese. Negli anni Cinquanta interpreta, solo per fare pochi esempi, L'arte di arrangiarsi (1955) di Luigi Zampa, Un eroe dei nostri tempi (1955) di Mario Monicelli, Lo scapolo d'oro (1956) di Antonio Pietrangeli, con cui riceve il suo primo Nastro d'Argento come miglior interprete protagonista, Ladro lui, ladra lei (1958) ancora diretto da Luigi Zampa e soprattutto La grande guerra (1959) di Mario Monicelli e Il vigile (1960), sempre di Luigi Zampa, dove, nei panni dello spiantato Otello, crea uno dei suoi personaggi più divertenti. Dopo aver ricevuto nel 1958 la prestigiosa carica di comandante della Repubblica italiana, nel 1965 Alberto Sordi esordisce dietro la macchina da presa con Fumo di Londra, poi, nel 1968, ottiene un successo straordinario con Il medico della mutua di Luigi Zampa e anche con Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa?, diretto da Ettore Scola. E poi ancora Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971), Lo scopone scientifico (1972), Polvere di stelle (1973), Un borghese piccolo piccolo, con un Sordi mattatore che conferma di saper utilizzare abilmente anche il registro drammatico e di poter mescolare con sapienza il comico al grottesco, e poi Il marchese del Grillo (1980). In coppia con Monica Vitti, sua partner perfetta, nel celebre Io so che tu sai che io so (1982) e poi insieme a Carlo Verdone in In viaggio con papà (1982) e Troppo forte (1986), Alberto Sordi riceve negli anni Ottanta molti riconoscimenti internazionali, che culminano al Carnegie Hall Cinema di New York dove, nel novembre del 1985, si svolge la rassegna Alberto Sordi - Maestro of Italian Comedy. Ma la lista dei premi prestigiosi è ancora lunga: tre Nastri d'Argento, sette David di Donatello, due Grolle d'Oro, un Golden Globe, un Orso d'Oro a Berlino e un Leone d'Oro a Venezia per celebrare la sua carriera. Nonostante i successi e i riflettori costantemente puntanti addosso, Alberto Sordi ha sempre tenuto blindata la sua vita privata e non ha mai reso ufficiale alcun legame sentimentale.
DaLa Repubblica, 25 febbraio 2003
Per tutti è stato uno dei più grandi attori italiani. Per tanti era io spirito libero e “scansonato” di Roma, ma per tutti noi era e resta, semplicemente Albertone. “Romano de Roma” e attore dalle mille sfaccettature, Alberto Sordi viene raccontato dal critico cinematografico e teatrale, Goffredo Fofi nel libro Alberto Sordi - L’Italia in bianco e nero (Le Scie Mondadori, pagg. 275).
Lo scrittore nell’opera conduce il lettore lungo una galleria di ritratti di artisti come Totò, Federico Fellini, Anna Magnani, Dino Risi, Mario Monicelli e tanti altri, che hanno lavorato e conosciuto più o meno approfonditamente l’attore trasteverino.
Retroscena, curiosità e aneddoti. Ma anche politica, filmografia e un pizzico di biografia. Di tutto e di più insomma, su colui che con i tanti personaggi interpretati ci ha fatto ridere e vergognare dì fronte ai nostri difetti. Più di ogni altro attore della seconda metà dei Novecento, più di Totò e di Gassman, di Mastroianni e di Tognazzi, ci ha mostrato quello che siamo e che forse avremmo preferito non essere. Sordi con i suoi film diviene popolare senza ammiccamenti di sorta, senza quella indulgenza complice che c’è invece in tutti gli altri mattatori suoi concorrenti, i quali fanno di tutto per rendere attraenti i loro personaggi farabutti o fannulloni che siano. Lui preferisce portarli con sé, sguazzando dentro le loro debolezze senza mai volerle giustificare né fustigare.
Quarantaquattro paragrafi, nei quali pensieri e opinioni si susseguono senza soluzione di sorta. In uno di questi, intitolato “Democristiano? Fascista? “ si raccontano le idee politiche dell’attore. Veterocattolico, nuovo ricco, nostalgico del fascismo, ebbe le migliori frequentazioni e le maggiori affinità non con i fascisti o i comunisti, non con il meglio della tradizione cattolica, ma proprio con quella più fosca. “Oggi libertà e disordine vanno sottobraccio. Ieri tutti portavano la divisa ed eravamo tutti uguali: i figli di Agnelli e quelli dello stagnaro. Non c’erano differenze di classe. Queste sono alcune delle sue dichiarazioni che hanno svelato le tendenze certamente poco di sinistra dell’attore romano.
Ma nel libro troviamo tanto altro: il rapporto conflittuale avuto con Aldo Fabrizi, quello di grande amicizia con Mario Monicelli e quello di stima con l’altro grande del cinema: Totò. E poi il rapporto con il gentil sesso, un rapporto costellato da tante chiacchiere sulle sue presunte relazioni e ché solo nel caso della Andreina Pagnani, Sordi ha accettato che fosse reso ufficiale.
E ancora. La sua vecchiaia artistica che viene notata con un gesto apparentemente vitale, cioè il passaggio alla regia. Un passaggio che l’attore motiva con la volontà di non voler più rimettere agli altri le proprie idee.
Dal 1937, anno in cui esordì nel cinema con Il feroce Saladino al 1998. anno del suo ultimo film Sposami papà oltre centocinquanta film hanno visto Sordi protagonista o come attore o come regista. Film che sono entrati nelle case e nel cuore della gente perché con i suoi personaggi ha saputo trattare e affrontare temi e mestieri cari alla gente comune. Temi come il Dopoguerra, la Liberazione, il boom economico. Cinquant’anni di carriera attraverso l’Italia che cambia. Così come i suoi personaggi: da Nando Moriconi che parla un romanesco americanizzato ma che non rinuncia agli spaghetti, al vigile tanto zelante da fare la multa al sindaco della città, dal tassista che nel traffico caotico di Roma accompagna su e giù per la città perfetti sconosciuti e personaggi famosi, al soldato furbesco e servile che però muore da eroe assieme al suo commilitone dopo essere stato catturato dagli austriaci nella prima guerra mondiale.
Molti sono stati i libri che fino ad oggi si sono dedicati ad Albertone, ma quello di Goffredo Fofi è un viaggio che parte dal dì dentro del mondo cinematografico e che ci aiuta a scoprire anche piccoli segreti e circostanze non a tutti note, stilla vita di questo “grande” del cinema italiano.
Da Il Secolo d’Italia, 16 marzo 2004
I personaggi al cinema e le apparizioni in tv: il flop dello Sceicco bianco, il successo dei Vitelloni con Fellini, i film con Monicelli, le battute osé con Mina e la Carrà.
Un cofanetto con un dvd e un libro raccontano la straordinaria carriera di un italiano.
A invitarlo in trasmissione si correva sempre qualche rischio. La prima a farne le spese fu Mina a Studio Uno. Era il 1966, Alberto Sordi era all'apice del successo, poteva permettersi tutto, anche qualche complimento osé: «Mina, Minona fatte vede' da vicino. Sei grande, grande, ‘na fagottata de robba». La stessa sorte toccò pure a Raffaella Carrà durante Buonasera Raffaella: «Io so romano e tu sei romagnola. Sei Roma dentro e tutta gnola fori». Mina e la Carrà sul palcoscenico c'erano nate e schivarono i colpi con ironia. Eleonora Brigliadori invece non seppe dove guardare quando durante una puntata di Serata d'onoreera il 1989 - Sordi le chiese perché da Mediaset fosse passata in Rai: «Ha litigato con Berlusconi? Dica la verità,ha messo le mani addosso?».
Le più divertenti apparizioni televisive dell'attore romano sono ora raccolte nel dvd Alberto Sordi presenta Albertone a cura di Franco Rostagno e Marco Sacco (Einaudi, 24 euro) e il cofanetto accoglie anche il volume La grande anima d'Italia, una biografia piena di aneddoti di Valentina Pattavina, con un ricordo di Vincenzo Cerami. Eppure di tv Albertone non ne fece molta («pagano poco» diceva): quanto bastava a promuovere i film, e qualche occasione speciale, come il programma Un'ora e 1/2 con il regista di 8 e 1/2 dedicato a Federico Fellini. Qui Sordi rievocò l'antica amicizia fatta di lunghe passeggiate e di fame, tanta fame. «Mangiavamo in una latteria in via Frattina dove c'eravamo accattivati la cuoca. Ordinavamo uno spaghetto, e lei sotto ci metteva due bistecche e due uova». Sordi e Fellini d'altronde, al cinema c'erano arrivati insieme. Facendo un flop colossale.
Per Lo sceicco bianco (1952), il primo film girato da solo (Luci del varietà del 1950 era firmato con Alberto Lattuada), Fellini aveva voluto dare il ruolo del protagonista proprio all'amico Alberto, già divo del varietà con un po' di comparsate cinematografiche alle spalle. Il film non piacque al pubblico e rimase in sala solo pochi giorni. «Sordi» scrive Pattavina «non buca lo schermo, anzi passa per un interprete scostante e antipatico. Il distributore va in rovina e le pizze in circolazione vengono sequestrate dal curatore fallimentare».
Per l'attore, che aveva passato la giovinezza a cercare di entrare nel mondo del cinema, fu una doccia fredda: gli toccò tornare al varietà con Wanda Osiris. Ma Fellini volle riprovarci, e lo chiamò a lavorare a I vitelloni (1953). Peccato che dopo il disastro dello Sceicco bianco nessuno volesse distribuire il nuovo film. Poi, però, la pellicola finì in concorso a Venezia e vinse il Leone d'argento. La scena di Sordi che passa in macchina davanti a un gruppo di operai e grida: «Lavoratori», e giù una pernacchia, sarebbe diventata una delle sequenze più celebri del cinema di quegli anni.
Nonostante Sordi girasse film come un forsennato (tredici in un solo anno), Cinecittà stentava ad amarlo. Entrò nel cast di Un giorno in pretura solo perché a Steno mancano seicento metri di pellicola e non sapeva come finire il film. Per lui Albertone s'inventò l'episodio di Nando l'americano che, dopo un bagno in un fosso («America', facce Tarzan») finì nudo a casa di una signora che lo denuncia per oltraggio al pudore. Se i tempi dell'avanspettacolo, in cui veniva pagato -a pane e noci erano passati, il vero salto fu per Sordi La grande guerra (1959) di Mario Monicelli. Un altro film che nessuno voleva produrre perché sul conflitto c'era poco da scherzare. Invece la pellicola vinse il Leone d'oro a Venezía e per Albertone fu l'occasione di dimostrare le sue doti d’attore capace di far ridere ma anche di far piangere.
Sordi improvvisava, cambiava i copioni, aggiungeva battute. Tanto che durante la lavorazione di Lo scopone scientifico (1972) sfiorò l'incidente diplomatico. La protagonista della pellicola di Luigi Comeneini era Bette Davis, diva scontrosa e precisa, che al primo giorno di riprese aveva già imparato a memoria l'intero copione. Rimase spiazzata dall'improvvisazione di Albertone e minacciò di lasciare il film a metà dicendo: «Alla Davis non si cambiano le battute».
E fu ancora MoniceIIi nel 1977, a volere Sordi come attore drammatico in un Un borghese píccolo piccolo tratto dal romanzo dell’esordiente Vincenzo Cerami. Con lo scrittore, nacque un'amicizia duratura. Sordi gli chiese spesso soggetti da portare sullo schermo: «L'ultimo» ricorda Cerami «sulla vicenda di Stefania Ariosto e del suo entourage, gli piaceva vedersi in mutande e scarpe da tennis fare jogging ad Arcore insieme alla corte di Berlusconi». Non se ne fece niente e Sordi continuò a tratteggiare la maschera del «vigliacco e qualunquista» come scrive Pattavina, «deferente e ossequioso con i potenti ma cattivo e brutale con i deboli. L'italiano medio insomma. Uno come noi.
L'arte e la carriera di Alberto Sordi potrebbero essere argomento di un lungo saggio estremamente moderno e appassionante: quasi un nuovo Paradoxe sur le comédien. Ma la novità dovrebbe consistere soprattutto nel mettere in rilievo ciò che Diderot non ha detto: o che si poteva «far dire» a Diderot soltanto se lo si leggeva forzando il testo. Ed è questa, la novità: che l'attore è il simbolo più vivo dell'artista come «fenomeno psicologico». In altre parole, tutti i procedimenti, dai più semplici ai più complicati, di questo fenomeno possono essere studiati meglio nell'attore che nel poeta, nel pittore, nel musicista: per la ragione che possono essere osservati non in un oggetto in qualche modo estraneo all'artista, in una poesia, in un quadro, in una melodia, ma nella voce, nei gesti, nell'espressione, nel corpo stesso dell'artista vivente: corpo, che l'arte modifica via via per i propri scopi, e che è la materia medesima dell'arte dell'attore. Ed è chiaro che, come fenomeno da studiarsi, l'attore di cinema (non doppiato, si capisce) è assolutamente preferibile all'attore di teatro. Perché, che cos'è un attore di cinema se non un attore di teatro visto al microscopio?
Dunque, Sordi soffre, ed esemplifica in se stesso, il più moderno dei problemi dell'arte moderna: il contrasto tra tecnica e ispirazione. Da anni, noi assistevamo alle pellicole di Alberto Sordi divisi tra l'ammirazione per l'abilità dell'attore, che aveva ogni volta più del prodigioso, e una sostanziale indifferenza per il complessivo risultato artistico, che, proprio in rapporto a quei crescenti prodigi tecnici, sembrava ogni volta più modesto. «Ma è possibile», ci dicevamo, «è possibile che Sordi, coi mezzi che ha, non riesca a darci qualche cosa di più?». E sognavamo un Sordi meno locale, meno provinciale, meno romanaccio, meno italianuccio: un Sordi o comico o tragicomico o magari tragico, ma che ci desse, comunque, un'immagine umana più universale, e che riflettesse un riso e un pianto più profondi, più vicini alle vere ragioni che tutti abbiamo per ridere e per piangere.
Ci pareva, insomma, che oltre la portentosa facilità mimica di Sordi, oltre il suo ritmo elettricamente anticipato e sincopato, oltre la sua recitazione tecnicamente umanissima, non ci fosse niente, o molto poco: che uno degli attori più comunicativi del mondo non avesse niente, o molto poco, da comunicare. E che perciò si adattasse, in ultima analisi, al messaggio riduttivo e sconsolato del Belli: ...'na pisciatina, 'na sarvereggina, e 'n zanta pace ce n'annamo a letto.
Che potrebbe essere il motto, o, speriamo, l'epitaffio del Sordi prima maniera.
Ma Sordi era qualcosa di più. Vogliamo dirla tutta? Come in fondo alla chiusa del Belli, anche in fondo ai gags del Sordi prima maniera: meno conscia, meno seria, meno accettata, meno poetica di quella del Belli, vibrava tuttavia una disperazione.
Si trattava, per Sordi, e si tratta ancora, di scavare di più in questa disperazione: di arrivare appunto alla coscienza di se stesso e del proprio vuoto intimo: di accorgersi e di confessare che, mentre l'umanità ha bisogno di tante cose, lui non ha niente da dare o da dire all'umanità: di mettere la propria indifferenza freddezza stanchezza, malattie tradizionali nella piccola borghesia romana ma croniche ormai nelle borghesie piccole e medie e grandi dell'occidente, metterle a confronto con i problemi economici, sociali, morali di tutto il mondo d'oggi: da Kiev a Dallas a Canton a Stoccolma a Vigevano.
Sordi ha cominciato a capire, e a prendere coraggio, nel Diavolo, girato a Stoccolma: ha continuato, e ci ha dato dentro spietatamente col Maestro di Vigevano.
Ho visto le cifre degli incassi: sono contento che un così grande pubblico sia attirato dal film: segno che il film, anche se disturba e urta, nel profondo interessa, stuzzica, da agli spettatori il gusto della verità, anche e soprattutto se gli spettatori sostengono di non trovarcelo. E non capisco, davvero, come mai Claire Bloom non sia piaciuta, non sia parsa una naturale e probabile ragazza lombarda, di origine tra popolana e borghese, bella, non malvagia, ma scettica, attiva, avida di vita. Trascuriamo la voce e l'accento, perfetti, ma dovuti al doppiaggio: elogio, quindi, a Petri e all'ignota doppiatrice. Pensiamo agli sguardi, agli atteggiamenti, alle toilettes, al modo brusco e diretto del gestire. E non esitiamo a dichiarare che la Bloom, nel Maestro, è un piccolo miracolo: l'ultima edizione, aggiornatissima, dolorosa e affascinante (le sottovesti, le gambe!) della «donna lombarda» dell'antica canzone. Il piccolo miracolo è che, a compierlo, sebbene aiutata da Petri e da Sordi, e memore della grande scuola di Chaplin, sia stata un'attrice inglese.
E veniamo ad Alberto. Ho sentito rimproverare, da varie parti, l'intima stupidaggine del personaggio del Maestro: «Non ci si può interessare alla vicenda di un uomo così sciocco!». Come se anche gli sciocchi non facessero parte dell'umanità: e come se, soprattutto, l'umanità non facesse, di se medesima, parte, e che parte, alla sciocchezza. Pensiamo alla bétise flaubertiana. Ma la sciocchezza del Maestro sarebbe priva di interesse, e i miei amici a cui il Maestro non piace avrebbero ragione, se restasse una sciocchezza inerte, misera, da macchietta senza altra funzione che quella meccanica di far ridere.
Una qualunque delle scene del Maestro basta, invece, a provare che si tratta di una sciocchezza studiata, scavata, sofferta fino in fondo: una sciocchezza simbolica, in altre parole: una grande trovata di Sordi, che, finalmente, ha dato una verità corporea, concreta, poetica a quel senso di vuoto che dicevamo. Ecco i sogni a occhi aperti del Maestro, ecco il suo delirio quando è malato: pezzi indimenticabili, dove la stupidità s'incarna e si esalta contemplando i propri più frusti miti. Sì, la bétise del Maestro è la metafora dell'indifferenza freddezza stanchezza di tutta una classe. Che forse Georges Dandin è intelligente? Eppure è uno dei personaggi più comici e più umani di Molière. Tutti i personaggi di Molière, del resto, perfino Alceste, sono molto meno intelligenti di Molière stesso: e, ogni volta, commedia per commedia, proprio questa limitazione di intelligenza coincide con la concretezza poetica del personaggio.
Nella scena finale e principale di tutto il film, quella della dettatura del verbale al commissariato, Sordi tocca la vetta: è straziante e ridicolo: sublime e miserabile: cretino ed eroe. Nulla di più moderno, nulla di più futuro e rivoluzionario. E evidente, in questa scena da antologia, che la dignità del rapporto coniugale, concepito come qualche cosa di astratto, magico, e comunque superiore al rapporto economico, è un mito ormai decrepito, in cui si ostina a credere, torturata dalle dilanianti eppur ridicole sofferenze dell'orgoglio, soltanto la nostra comune imbecillità: comune a noi tutti, anche a quelli che si credono intelligenti.
E la scenetta che segue la dettatura del verbale, la scenetta fra padre e figlio, breve ma importantissima per il suo apparente cinismo, suggella questa straordinaria chiarezza di idee. Ci siamo, miei cari! Questa è la nuova Italia, l'Italia non provinciale. Abbiamo detto Molière. Possiamo anche evocare Gogol e Cecov. Non saprei lode più valida.
Petri, dopo il suo serissimo ma un po' programmatico Giorni contati, ha dato qui la prima vera prova della classe della sua ispirazione: Petri mira lontano, Petri gioca grosso.
E Sordi ci ha fatto piangere e ridere nello stesso momento: che è la massima ambizione, in ogni epoca e in ogni luogo, del comédien.
19 gennaio 1964
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006
Dicono che, finora, Alberto Sordi non abbia avuto successo all'estero: può darsi che il successo venga, presto, e che questa situazione sia smentita da una inaspettata «scoperta» (e l'auguro all'attore): comunque non si può non meditare su questo fatto. Alberto Sordi è stato quest'anno al centro del cinema italiano: c'era Alberto Sordi nei Magliari, c'era Alberto Sordi nella Grande guerra, c'era Alberto Sordi nel Moralista, c'era Alberto Sordi in altri tre quattro filmetti di cassetta (vedi Costa Azzurra); in gran parte della produzione italiana c'era Alberto Sordi. E ci sarà. In questo momento la comicità nazionale coincide in gran parte con quella di Sordi. Totò e Fabrizi invecchiati e cadenti, gli altri quasi tutti fuori moda (a parte, più aristocratico, il caso di Eduardo De Filippo), è Sordi che ha il monopolio del riso. Ma all'estero non fa ridere. Bisognerà pur chiederci il perché.
Vediamo un po': in fondo il mondo della Magnani è, se non identico, simile a quello di Sordi: tutti due romani, tutti due popolani, tutti due dialettali, profondamente tinti di un modo di essere estremamente particolaristico (il modo di essere della Roma plebea ecc.). Eppure la Magnani ha avuto tanto successo, anche fuori d'Italia: il suo «particolarismo» è stato subito compreso, è diventato subito, come si usa dire, universale, patrimonio comune di infiniti pubblici. Lo sberleffo della popolana di Trastevere, la sua risata, la sua impazienza, il suo modo di alzare le spalle, il suo mettersi la mano sul collo sopra le «zinne», la sua testa «scapijata», il suo sguardo di schifo, la sua pena, la sua accoratezza: tutto è diventato assoluto, si è spogliato del colore locale ed è diventato mercé di scambio, internazionale. È qualcosa di simile a quello che succede per i canti popolari: basta trascriverli, aggiustarli un po', toglierci la selvatichezza e l'eccessivo sentore di miseria, ed eccoli pronti per lo smercio a tutte le latitudini.
Alberto Sordi, no. Parrebbe intraducibile. Lo si direbbe un canto popolare che non si può trascrivere. Ce lo vediamo, ce lo sentiamo, ce lo godiamo noi: nel nostro mondo «particolare».
Ma di che specie è il riso che suscita Alberto Sordi? Pensateci bene un momento: è un riso di cui un po' ci si vergogna. E il massimo di questo senso di vergogna viene raggiunto, (ricordate?), nella risata angosciosa e un po' isterica che Sordi strappa al pubblico nei due episodi dei Magliari in cui vende la mercé della povera ingenua gente tedesca, per di più colpita dal lutto. E vero che il «magliaro» è stata la più brutta interpretazione di Sordi: e non si capisce come egli sia così sfuggito di mano a un regista di buon gusto, anzi, di gusto raffinato, come è Rosi. Tuttavia, appunto perché è la più brutta, questa interpretazione può essere presa ad esempio, perché, nel suo eccesso, mostra con chiarezza l'intelaiatura della comicità di Sordi: è la comicità che nasce dall'attrito, con la variopinta e standardizzata società moderna, di un uomo il cui infantilismo anziché produrre ingenuità, candore, bontà, disponibilità, ha prodotto egoismo, vigliaccheria, opportunismo, crudeltà. È una deviazione dell'infantilismo. E quando uso questa parola, la uso in senso clinico (il lettore mi perdoni), nel senso che le danno gli psichiatri; la uso cioè molto seriamente. Il referto dei medici su Proust era, per esempio, infantilismo. L'infantilismo presiede a qualsiasi operazione artistica moderna, è il dio del decadentismo: cioè della grande arte borghese di questo ultimo secolo. Anche la comicità rientra in questo enorme schema fenomenologico. Da Charlot a Tati, per citare solo i grandi, i personaggi comici sono in realtà dei bambini (e ricordate pure Pascoli: ne siete storiograficamente autorizzati), bambini cresciuti, magari allampanati, magari pelati, ma sostanzialmente bambini: o, che sarebbe lo stesso, poeti. Anarchici, giramondo, nostalgici, scapigliati, spostati, falliti ecc., sono fondamentalmente inadatti a un rapporto normale con la società: in continuo urto con essa, e, nella fattispecie, con le sue convinzioni mondane, col suo tacito galateo di ipocrisie. Nessuno dei grandi comici del nostro tempo è un vero rivoluzionario: ma semplicemente un umanitario, un moralista, che, della società, indica i mali senza indicarne i rimedi. Il «ragazzine» che è in ogni comico non ne sarebbe capace.
Comunque resta un dato di fatto: in ogni comico vero del nostro tempo (e di tutti i tempi, del resto) c'è una profonda rivolta morale, che, se implica l'ingenuità inabile e improduttiva dell'infanzia, ne implica anche la bontà.
La bontà: ecco quello che manca totalmente in Sordi. Charlot ha fatto ridere tutto il mondo perché era buono; Harold Lloyd, Stan Laurei e Oliver Hardy hanno fatto ridere tutto il mondo perché erano buoni; Tati fa ridere tutto il mondo perché è buono. La Magnani - che tuttavia non si può dire una «comica», nel senso stretto della parola - è piaciuta a tutto il mondo, pur essendo così particolaristica-mente italica, perché è generosa, appassionata.
Alla comicità di Alberto Sordi ridiamo solo noi: perché solo noi conosciamo il nostro pollo. Ridiamo, e usciamo dal cinema vergognandoci di aver riso, perché abbiamo riso sulla nostra viltà, sul nostro qualunquismo, sul nostro infantilismo.
Sappiamo che Sordi è in realtà un prodotto non del popolo (come la vera Magnani) ma della piccola borghesia, o di quegli strati popolari non operai, come se ne trovano specialmente nelle aree depresse, che sono sotto l'influenza ideologica piccolo-borghese. Alberto Sordi, come Cioccetti, è stato educato in sacrestia, da piccolo ha fatto il chierichetto. Cresciuto, si è trovato a doversi adattare: non c'è stata soluzione di continuità morale: ogni atto, che il bambino onesto educato dal prete riproverebbe, è tacitato, è giustificato dalla necessità. Un malato ha la necessità di essere sano, e, preso da questa necessità improrogabile, non hatempo e modo di occuparsi dei mali degli altri. È questo infantilismo come malattia, diventato cattiveria, che commuove in Sordi noi italiani: possiamo perdonarlo, perché sappiamo tutto, cosa c'è dietro e sotto.
Ma fuori d'Italia non sono cattolici: sono protestanti, puritani, o sono dei cattolici rigorosi senza compromessi. Capisco come per pubblici simili sia difficile ridere su un modo di vita che è il peccato stesso, è il male stesso, senza rimedio, senza contraddizione. Essi non conoscono l'arte di arrangiarsi, o, se ne hanno sentore, la vedono molto più romanticamente. Tanta ferocia, tanta viltà è inconcepibile. Noi possiamo riderne, amaramente: ma a loro chi glielo fa fare?
Questa comicità di Sordi piccolo-borghese e cattolica, fondamentalmente senza nessuna fede, senza nessun ideale, non urta e non urterà mai la censura italiana: urta e urterà sempre chi possiede una sensibilità civica e morale, cioè la media dei pubblici francesi e anglosassoni.
Non vorrei che questa potesse parere una eccessiva «stroncatura» di Sordi: in fondo, probabilmente senza rendersene conto, il tipo che egli così intelligentemente e vividamente ha inventato, era necessitato fuori da lui, dalla società in cui egli vive in assoluta acribia. Per diventare un vero grande comico, «universale» (come si dice) gli ci vuole un po' di senso critico: un po' di cattiveria intellettuale, finalmente, dopo tanta cattiveria viscerale! C'è infatti la possibilità di inserire nel suo personaggio quel tanto di pietà, cioè di conoscenza di sé e del mondo, sia pure irrazionale e sentimentale, che gli manca. Egli deve essere meno ellittico, meno ammiccante: noi, che ci siamo in mezzo, lo capiamo subito, gli stranieri (cioè il mondo, cioè lo spettatore in assoluto), no. Egli deve rendere esplicita quell'estrema ombra di pietà che nel suo infantilismo pure permane e può commuovere, malgrado le mostruosità di cui è capace.
E dico che tutto questo è possibile perché due volte Sordi c'è riuscito: una volta per merito del dialogo, una volta per merito del regista. Intendo riferirmi a una particina indimenticabile, a una specie di «a solo» che Sordi ha eseguito nel Medico e lo stregone; e, soprattutto, alla Grande guerra. In questi due casi, finalmente, Sordi vive di due elementi, entrambi operanti: il Sordi bebé antropofago, cattivo, amorale, e il Sordi poveraccio morto di fame sostenuto suo malgrado da una forza morale, dalla pietà che in infinitesima parte sente e per il resto incute.
Se in Sordi entrasse definitivamente questa contraddizione, se egli capisse che non si può ridere se al fondo del riso non c'è della bontà - pur esercitata o repressa in un mondo nemico - la sua comicità finirebbe di essere uno dei tristi fenomeni della brutta Italia di questi anni, e potrebbe, nei suoi modesti limiti, contribuire almeno a una lotta riformistica e morale.
Da Il Reporter, 19 gennaio 1960