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Rassegna stampa di Peter Sellers

Peter Sellers (Richard Henry Sellers) è un attore inglese, regista, è nato il 8 settembre 1925 a Southsea (Gran Bretagna) ed è morto il 24 luglio 1980 all'età di 54 anni a Londra (Gran Bretagna).

SIMONETTA ROBIONY
La Stampa

Di pochi attori si può dire che fossero geniali. Di Peter Sellers sì. Dotato di creatività vulcanica, malinconie abissali, inventiva irrefrenabile, angosce irrisolvibili, Peter Seller ha gestito la sua straordinaria carriera senza mai ricorrere a quell’armadi difesa che è la professionalità, un bene necessario per chi sceglie di esercitare il mestiere di attore senza rischiare la follia.
È stato, Sellers, come una lampadina attraversata dagli sbalzi di una corrente che non può reggere: prima o poi i fili si bruciano e scoppia. E lui è scoppiato, a 54 anni, dopo quattro infarti devastanti, il 24 luglio del 1980. Lasciava tre figlie quattro ex mogli, due candidature all’Oscar con Il dottor Stranamore e con Oltre il giardino, alcune interpretazioni entrate nella storia del cinema, prima fra tutte quella dell’ispettore Clouseau nella serie che Blake Edwards ha dedicato a La pantera rosa.ll ruolo di Clouseau, destinato in principio a Peter Ustinov, nelle mani di Peter Sellers si era trasformato infatti in una maschera da teatro dell’assurdo. Quell’investigatore «incline agli incidenti» la cui presunzione era pari alla stupidità, divenne il simbolo di una società stravolta nella quale, è stato scritto, «ragione e intelligenza appartengono ormai ai passato».

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Peter Sellers, protagonista del «Dottor Stranamore» e «Lolita» di Stanley Kubrick, di «Oltre il giardino» di Hal Ashby, inarrivabile comico inglese nella serie «Pantera Rosa», nello straordinario «Hollywood Party» di Blake Edwards, era un grande attore e un uomo odioso. Dipendeva da una madre possessiva. Durante brutte crisi di nervi picchiava le mogli, faceva a pezzi la casa, spaccava i giocattoli del figlio bambino.
Disprezzava il proprio lavoro, detestava i registi «cretini mangiasoldi» (tutti, tranne Kubrick e Ashby). Era un donnaiolo compulsivo: quattro mogli, innumerevoli ragazze di passaggio, una passione ostinata e non ricambiata per Sophia Loren. Ricorreva nell'incertezza a un veggente, lettore di tarocchi ed evocatore di morti. Così lo descrive «Tu chiamami Peter» del giamaicano-inglese Stephen Hopkins, prodotto per la rete televisiva americana a pagamento HBO, protagonista Geoffrey Rush, con Charlize Theron nel personaggio d'una delle mogli più belle, Britt Ekland, con Emily Watson nel personaggio di una delle mogli più buone, con Sonia Aquino come perfetta Sophia Loren. Il film vuol essere una biografia di Peter Sellers ma, non disponendo neppure d'un fotogramma del suo lavoro meraviglioso, ne racconta la nevrotica vita privata: e pure quella mutilata, priva di alcune caratteristiche importanti e significative ben note a chi conosceva l'attore. Peter Sellers era malato di cuore: per un attacco cardiaco morì a 54 anni nel 1980, ma aveva già avuto un infarto due mesi dopo il matrimonio con Britt Ekland e gli avevano imposto di dimagrire di dodici chili. Dopo la malattia e la dieta la faccia bianca smagrita aveva assunto un che di cavallino, oltre alla speciale malinconia, alla attonita tristezza, alla stanchezza pallida che sono il vezzo o il morbo professionale dei comici. Sellers aveva la passione, l'ossessione delle macchine. Non soltanto delle automobili: la Aston Martin, la Ferrari, la Lincoln, la Mercedes, la Rolls Royce amaranto di cui teneva due foto Polaroid nel portafogli, la Lotus regalata per le nozze a Britt Ekland (in dieci anni, nei Settanta, ne cambiò 52). Ma anche di ogni altra macchina inventata e inventabile, di ogni possibile congegno elettronico, elettrico o meccanico: macchine fotografiche, registratori, cineprese, stereo, bollitori, plaid (persino le braghette di sua figlia Vittoria erano fornite di un segnalatore elettronico che emetteva un fischiolino di avvertimento quando la bambina si bagnava).

EMANUELA MARTINI
Il Sole-24 Ore

Un set esotico. Una pattuglia dell’Impero britannico sta per cadere nell’imboscata di una setta indiana. Oltre le rocce si leva la figura solitaria di un trombettiere. è indiano, ma porta la divisa britannica. Suona per avvisare i suoi compagni. Gli sparano; ferito, continua a suonare. Gli sparano ancora; cade, ma si rialza e riprende a suonare. Una mitragliatrice lo crivella di colpi; cade dietro le rocce, poi striscia avanti e tenta di suonare. Il cannone lo colpisce, ma l’eroico trombettiere non ha intenzione di morire, e, ancora, suona. Finché il regista, esasperato, urla lo stop e chiede di fermare quell’idiota. L’idiota è Hrundi V. Bakshi, comparsa indiana sul set del Figlio di Gunga Din, ennesimo remake di un classico dell’avventura. Ingenuo e maldestro, nei tre minuti successivi, riuscirà a rovinare un’altra scena, mostrando in primo piano (siamo nel 1870) un vistoso orologio subacqueo, e a distruggere il fortino che serve per il finale del film.
È l’incipit, folgorante, di Hollywood Party, il feroce sberleffo hollywoodiano diretto nel 1968 da Blake Edwars, Hrundi Bakshi (il cui nome finirà per errore dalla lista dei licenziati a quella degli invitati al party del produttore). La parte è una delle più emblematiche della sua carriera: fuori casta, perché indiano tra i bianchi, comparsa tra la Hollywood che conta, ingenuo tra gli squali, per di più dotato di un ‘orologio mentalé che sembra regolato sulla più incauta e distruttiva assenza di tempismo. In una notte, Bakshi fa a pezzi la villa del party e la psiche dei suoi abitanti, scatenando con la sua presenza tutte le forze eversive presenti nel luogo (camerieri, figli contestatori, starlet insofferenti, ubriaconi, persino i gadget tecnologici, tutto finirà per ribellarsi alla logica artefatta del luogo). Nel 1968, la collaborazione tra Sellers ed Edwards era già consolidata. Il distruttore istintivo di stereotipi culturali e il distruttore razionale dell’establishment hollywoodiano si erano incontrati sul terreno della commedia sofisticata: La pantera rosa (1963) dove, tra bei vestiti e bella gente, tra Cortina e una villa romana, tra l’aplomb ironico del ladro gentiluomo David Niven e la classe impassibile dell’imbrogliona Capucine, si era infiltrato un imprevedibile guastafeste, che aveva finito per ‘rubaré il film a tutti loro. Era Jacques Closeau, ispettore della Sureté, maldestro, incapace, imbecille, in eterna, disperata lotta con tutti gli oggetti di uso comune (accendini, porte girevoli, mappamondi, per non parlare di violini, attrezzi da ginnastica, armature, stecche da biliardo). Clouseau era Peter Sellers, approdato all’ultimo a un personaggio scritto per Peter Ustinov e che sarebbe diventato tanto popolare da fagocitare quasi tutta la sua carriera successiva. Un personaggio-clown, disarmante, disarmato e incontenibile, un eroe da cartoon penetrato in un involucro umano, che riesce ancora ad allargarsi (quando, travestito da Quasimodo, nella Pantera Rosa colpisce ancora, si gonfia come un dirigibile), accorciarsi (come quando si traveste da Toulouse Lautrec), a confondersi inestricabilmente con qualsiasi oggetto (la lotta con l’aspirapolvere nella Pantera Rosa colpisce ancora). Clouseau riportava lo slapstick ad antichi splendori, e trattava il mondo come un’accozzaglia di nonsense. Sellers, dopo i primi due film, ne ebbe abbastanza di Clouseau, ma continuò a interpretarlo, per ovvi motivi alimentari. Tra l’altro, gli anni Settanta non furono generosi con la sua stupefacente bravura d’attore. Dovette arrivare a pochi mesi dalla morte, nel 1980, per interpretare uno dei personaggi della sua vita, il candido Chance Gardiner, idiota scambiato per saggio (e forse davvero più saggio della gente normale) in Oltre il giardino di Ashby. Ma Chance, Clouseau, Bakshi erano già tutti contenuti nella prima parte della carriera di Sellers, quando aveva punteggiato il cinema inglese di despoti baffuti (Nudi alla meta), uomini qualunque travolti da scossoni culturali (Sesso, peccato e castità, La battaglia dei sessi), imbroglioni un po’ laidi (Il braccio sbagliato della legge, Mr. Browne contro l’Inghilterra). Tutti tra il 1955 e il 1965, tra i Goons e Kubrick.

EMANUELA MARTINI
Film TV

Dal dizionario della lingua inglese: «Goon. I) una recluta, in servizio nelle forze armate, soprattutto nell’Inghilterra occidentale (dal 1940). un allievo della scuola piloti della Raf (dal 1941). Non di uso corrente; probabilmente originata da: 2) Un tonto; un sciocco) e loon (lunatico). Da Alice the Goon di Braccio di ferro».
Non di uso corrente; né di costumi, impatto, moralità, umorismo correnti: quando nacquero i Goons, con il loro Goon Show, il 28 maggio del 1951 alla radio, la comicità mondiale cominciò a ribaltarsi. Erano quattro ed erano indiavolati, intorno a un microfono a creare, mischiare, sovrapporre voci, rumori, personaggi, caos, paradossi monocellulari «un Goon è qualcuno con un cervello monocellulare», dicevano. «Qualsiasi cosa che non sia elementare Io confonde. Il suo linguaggio è inarticolato»). Prima di loro c’erano stati la satira del music-hall e il sarcasmo aguzzo delle commedie Ealing; dopo di loro fu il diluvio, furono i Beatles e Richard Lester e tutti i suoi film, e naturalmente i Monty Python (loro eredi dichiarati) e Rowan Atkinson con Blackadder e Mr. Bean, secondo alcuni persino Mel Brooks e Gene Wilder e Marty Feldman. I settori più istituzionali della Bbc tentarono di bloccare lo show ma, settimana dopo settimana, non ci riuscirono, fino all’ultima puntata (The Last Smoking Seagoon), trasmessa a gennaio del 1960.

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