Tony Gilroy, classe 1958, è uno dei più dotati sceneggiatori americani. Questione di dna, forse: suo padre, Frank D., è un celebre autore teatrale vincitore del premio Pulitzer, e il nostro ha respirato scrittura da sempre, nella sua casa di New York. Solo sporadicamente dietro la macchina da presa, ma con una idea precisa in testa, quella di coniugare al massimo il testo scritto e la messa in scena. Pensiero e azione come nel cinema hollywoodiano classico o durante la stagione "politica" degli anni 70, alla quale guarda con attenzione particolare (pensiamo a quanto di Penn, Pakula, Pollack c'è nei suoi lavori...). Il miglior film di Tony Gilroy (che, lo ricordiamo, ha sceneggiato anche L'avvocato del diavolo di Taylor Hackford, titolo tra i più replicati in assoluto sulle reti Mediaset...) è Michael Clayton (2007) con un George Clooney in ottima forma e una Tilda Swinton difficilmente dimenticabile. Parabola thriller di un avvocato che "risolve problemi" per un grosso studio legale della Grande Mela, Michael Clayton è esemplare per asciuttezza narrativa, incisività dei personaggi, essenzialità della regia. Cinema medio (alto) del quale Hollywood sta sempre più perdendo lo stampo.
Ma l'opera (è il caso di dirlo) più importante di Gilroy resta senz'altro la quadrilogia dedicata a Jason Bourne. L'idea di creare un anti-007 ispirato ai romanzi di Robert Ludlum gli venne insieme al collega e amico Doug Liman, che poi diresse il primo episodio della serie, The Bourne Identity (2007). La coppia scoppia quando Doug accetta di dirigere un'altra spy story sui generis, Mr. & Mrs. Smith, pur restando come produttore esecutivo nei due successivi film della serie, The Bourne Supremacy (2004) e The Bourne Ultimatum (2007). Entrambi diretti dal britannico Paul Greengrass, scelto su consiglio di Gilroy e del protagonista Matt Damon, folgorati dal suo film Bloody Sunday. Ora si arriva al quarto episodio "spurio", The Bourne Legacy (l'eredità di Bourne). Senza Greengrass e Damon, Gilroy passa dietro la macchina da presa; al centro della scena non c'è più Jason Bourne (nonostante il film cominci quando viene ucciso il giornalista Ross alla Waterloo Station, e poi prosegua parallelamente alle vicende di The Bourne Ultimatum) e il suo posto è preso da un altro "asset" che la Cia deviata ha deciso di eliminare preventivamente, Jeremy Renner. Diciamo subito una cosa: consideriamo la trilogia di Bourne la migliore espressione action del decennio. Gilroy, che ha scritto tutti gli episodi, ha avuto una intuizione formidabile: raccontare la storia di un uomo la cui mente non ricorda nulla e non sa niente, quindi lascia fare al proprio corpo. Lotta e strategia. Istinto? Ritorno allo stato animale? Assolutamente no, e qui sta il bello: l'abilità di Bourne è nella memoria (paradossale per un amnesico, no?) ma il cervello non c'entra nulla perché la conoscenza è corporea e atavica. Il fulcro filosofico di ogni arte marziale che si rispetti, il concetto di "corpo cosciente". Con The Bourne Legacy purtroppo la sorpresa del tema viene meno, perché senza Jason resta solo l'intrigo (sempre più confuso) e personaggi che hanno perso spessore. Anche l'azione latita, nonostante non sia cambiato il regista della seconda unità, Dan Bradley, sempre strepitoso (per intenderci, è farina del suo sacco l'inseguimento sui tetti di Tangeri in The Bourne Ultimatum, qui replicato a Manila). Il sospetto è che Gilroy, nel voler proseguire a tutti i costi una saga che aveva già sparato le sue cartucce, nuoccia soprattutto a se stesso (negli Usa The Bourne Legacy ha incassato un quarto di Il cavaliere oscuro – Il ritorno, e forse ci si aspettava qualcosa di più...).