Chi è Joker? Arthur Fleck è un disgraziato che cerca di occuparsi della madre standole vicino e facendo tutto ciò per cui lei lo ha sempre incoraggiato: far ridere gli altri. Chi meglio di un pagliaccio può assolvere al ruolo di demolitore dell’ordine costituito? Come nella scena emblematica dell’ospedale, tra i bambini malati spicca la “patologia” di Arthur, che destruttura persino più della sua risata isterica, incontrollata e quasi “istrionica”. Per tre quarti di film, Arthur Fleck alias Joker continua nella sua danza ipnotica e psicotica, che trasformerà quel sorriso sghembo e sofferente nel gnigno slabbrato che tutti conosciamo grazie a Heath Ledger. Ma il Joker di Todd Philips e del fantastico Joaquin Phoenix entra ed esce dagli schemi, e nel farlo, manifesta la stranezza di fondo dei suoi comportamenti; d’altro canto, “la cosa che fa più ridere di essere malati è che gli altri pretendono che tu ti comporti come se non lo fossi”, annota in un suo taccuino. In altre parole, Arthur Fleck non accetta proprio il disvelamento pubblico del suo nucleo problematico. Perché se ne parla? Con il cinecomic sul cattivo più famoso dei fumetti, Todd Philips e lo sceneggiatore Scott Smith superano di slancio la mescolanza dei generi cinematografici, trasformando la sofferenza implicita in interiorità esplicita ed esibita e riuscendo a polarizzare critica e spettatori intorno a due aspetti: alcuni lo ritengono un viaggio inutilmente straziante nei luoghi mentali del disagio e del crimine, dove tutto è troppo enfatizzato per essere credibile. Altri temono che la spettacolarizzazione della malattia, che ha molto a che fare con la società odierna, porti a una sorta di isteria collettiva, come nella scena finale in cui una serie di clown inferociti mette a soqquadro la città e inneggia al salvatore che si fa giustizia da solo. Siamo di fronte a un caso di narrazione plurilineare, con la quale gli autori intendono fondere varie linee narrative: da un lato, l’evoluzione realistica del personaggio, dall’altro la descrizione soggettiva del cinema d’autore. Tuttavia, l’originale operazione meta-cinematografica, che risiede in un continuo rovesciamento tra forme e contenuti, funziona così a meraviglia, che l’umanizzazione del personaggio rende chiaro e lampante il suo progetto di vita, senza per questo condurci sul lettino dello psicanalista. Che significato ha? Il Joker sadico che uccide e sevizia ha in realtà una storia molto triste alle spalle, che la sceneggiatura evidenzia in modo particolare con una serie di passaggi illuminanti: a partire dal colloquio con la psicologa che gli comunica la mancanza dei fondi per continuare la terapia, passando per il dialogo memorabile con il datore di lavoro (che gli fa notare quanto i suoi colleghi lo sopportino nonostante sia un “freak”, ossia uno “strambo”), per finire con l’intervista del conduttore del suo programma preferito, quando, finalmente “esistente” al di là del contesto, Joker sorride senza indugi al mondo e alle telecamere. Non c’è redenzione, né ascesa dai bassifondi della società, c’è solo un potentissimo rovesciamento metaforico della storia: dalla tragedia alla commedia, dalla stand-up comedy alla comicità soggettiva, Arthur Fleck ci insegna che la vita è fatta di punti di vista perché ragionare in termini di produttività o di rigore morale non porta a nessun convincimento ulteriore, semmai a un ristagno della società e dell’individualità.
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