Gérard Depardieu è un attore francese, produttore, produttore esecutivo, co-produttore, è nato il 27 dicembre 1948 a Châteauroux (Francia). Gérard Depardieu ha oggi 75 anni ed è del segno zodiacale Capricorno.
Quante vite avrà vissuto Gérard Depardieu? Adesso ha cinquantasette anni, ma il grande attore, il francese più popolare al mondo, attraversa continue resurrezioni. Adesso ha recitato per la prima volta il personaggio di un odioso capo della polizia imperioso, intrigante, spietato arrivistaeall’occasione assassino in 36, Quai des Orfèvres e ha ritrovato aTangeri la donna amata in silenzio per più di trent’anni, Catherine Deneuve, in I tempi cambiano di André Téchiné. Adesso è più o meno magro e nel perenne affermarsi nel suo grosso corpo di grassezza e magrezza, ogni perdita di peso rappresenta una rinascita. Allo stesso modo, è una palingenesi ogni nuovo amore: dalla moglie madre dei due figli adulti, alla bellissima modella figlia di un diplomatico africano che gli ha dato un figlio, alla stupenda Carole Bouquet (il regalo d’addio per lei è stato un ristorante parigino molto bene avviato), alla coetanea Fanny Ardant con la quale al momento lavora per cinema e teatro. Peso e amori: il ripetitivo meccanismo delle resurrezioni fa sì che Depardieu non si annoi mai, che passi da un’emozione carnale all’altra, che ami moltissimo vivere.
Tra le resurrezioni innocue o piacevoli, ce ne sono state altre molto dolorose: è sopravvissuto nel 1996 a un raccapricciante incidente aereo, nel 1998 si è salvato da un grave incidente di motocicletta, nel 2000 ha superato una rischiosa operazione a cuore aperto, senza mai smettere di interpretare almeno tre film l’anno (sinora ne ha girati oltre cento).
E naturalmente nessuno è in grado di valutare le ferite inflittegli dai figli (oche lui ha inferto ai figli): la trentaduenne Julie vuoI fare l’attrice, ma con il sostegno del padre riesce a ottenere appena parti di poca importanza; il figlio trentacinquenne Guillaume, pure lui deciso a fare l’attore, ha debuttato col padre e presto ha interrotto la carriera finendo un anno in prigione per reati di droga, e a ogni occasione ha espresso la peggiore ostilità verso il padre.
Gérard Depardieu, provinciale nato in una famiglia proletaria, è attore grande, versatile e preparato, invadente e sensibile, sbruffone e delicato, capace di recitare personaggi storici (Colombo, Danton, Rodin), personaggi comici (ne I santissimi e La capra), personaggi romantici (L’ultima donna e Ciao maschio di Marco Ferreri, La signora della porta accanto di Truffaut). La massima bravura si unisce in lui al calore, alla comunicativa, alla simpatia e alla carnale sensualità che lo rendono tanto amato.
Da Lo Specchio, 19 marzo 2005
“Il regalo francese al cinema mondiale”, dissero fin dal 1974 ai tempi dei “Santissimi” di Bertrand Blier che lo lanciò mentre Time gli dedicò una copertina dal titolo One-man Nouvelle Vague (La nouvelle vague in un solo uomo). Nel 1991 ottiene la nomination all’Oscar per Cyrano che gli aveva già regalato la Palma d’oro a Cannes. È il suo capolavoro: il fisico animalesco di Depardieu sposa l’ottocentesco testo in versi di Edmond Rostand. L’attore francese trionfa in tutto il mondo. È unico. Ha la presenza scenica di una grande star cinematografica, l’appeal di un sex symbol e insieme la raffinatezza di un attore di teatro europeo.
Negli Stati Uniti tutti giurano che ha già in tasca la statuetta. I magazine si scatenano a raccontare l’incredibile vita del ragazzo povero, figlio di sottoproletari, con padre analfabeta perennemente ubriaco e madre perennemente incinta, che scappa di casa a Otto anni, fa ogni tipo di mestiere, trova la sua vocazione e conquista Hollywood.
Una bella favola dove l’epico “self made man americano” si unisce al fascino della cultura letteraria europea. Storia perfetta per commuovere il pubblico e la giuria dell’Academy Awards. Ma Gérard straripa: nel raccontare a un giornalista la sua infanzia infelice dice, nel suo malfermo inglese, di aver assistito a uno stupro quando aveva solo nove anni. Il giornalista capisce male. Traduce “assistere” con “partecipare” e nell’America puritana si scatena un putiferio che mobilita associazioni di madri e femministe. Depardieu perde l’Oscar. Colmo dell’umiliazione è vedere al posto del suo passionale e poetico Cyrano, l’affermato e dissanguato Jeremy Irons in una delle sue interpretazioni più monocordi: Il mistero Von Bulow.
Poco male, ormai è ai vertici. Ha comunque conquistato la scena americana. Tra i pochissimi attori europei non anglofoni a ottenere ruoli da protagonista nei block buster delle major: dalle commedie ( Green card di Peter Weir) al kolossal dove Ridley Scott gli affida il ruolo di Cristoforo Colombo in 1492 - La scoperta del paradiso (un mezzo flop) e Randall Wallace quello del corpulento Porthos nella Maschera di ferro accanto ad altri moschettieri di Hollywood: John Malkovich, Jeremy Irons, Gabriel Byrne più Leonardo DiCaprio nel ruolo del re.
Solo Depardieu (come appunto Gérard Philipe) è capace di ruoli tanto epici e virtuosismi cappa e spada, nonostante la statura, i cento chili e passa, il fisico da gigante gallico. Un corpo tanto eccessivo e straripante che poteva inchiodarlo a restare per sempre un caratterista. Ma è un corpo corretto da uno sguardo lieve e intenso, da una leggerezza nei gesti e da una magica naturalezza che gli permette ogni ruolo. Fin troppi forse: Cyrano, Colombo, il politico e tormentato Danton, l’egoista e borioso Anguste Rodin, il pirotecnico maestro di cerimonie che conquista il Re Sole ( Vatel) e poi, in tv, Edmond Dantès-Conte di Montecristo, il ministro Fouché nella fiction su Napoleone e un Jan Valjean talmente perfetto in tv nei Miserabili da distruggere per sempre la versione cinematografica e il volto irlandese di Liam Neeson più adatto a Dickens che a Hugo, nonché perplesso e fuori parte dall’inizio alla fine del film.
A teatro è stato persino Napoleone. E Dio solo sa come abbia fatto ad entrare nei panni del brevilineo e scattante ìmperatore.
Miracoli da grande attore. Tanto bravo da spaventare più famosi colleghi. “Non se ne parla nemmeno di riprendere il suo personaggio”, dichiarò Tom Cruise rifiutando il ruolo di Martin Guerre nel remake hollywoodiano Somnmersby, “quando l’ho visto ho capito che mi era impossibile recitare altrettanto bene”. Tom Cruise ha avuto fiuto, e Richard Gere che invece accettò la parte non fece la più bella figura della sua vita. Perché Depardieu è “bigger than life”: nel cibo (ha aperto un ristorante per buongustai a Parigi “La Fontaine Gaillon”, l’unico dove trovare il culatello di Parma), nelle corse in motocicletta (che gli hanno procurato più di un incidente), nelle malattie (un’operazione al cuore, quattro by pass), negli amori (una moglie Elizabeth Guignot da cui ha avuto due figli, una relazione extraconiugale con la modella Karine Sallas da cui è nata Roxanne più la rottura del matrimonio e la compagna attuale Carole Bouquet). Ma nel lavoro Depardieu è addirittura bulimico. Ha interpretato almeno 120 film, produce teatro, cinema, fiction tv e vini pregiati, è socio di un gruppo che estrae petrolio a Cuba e ha annunciato di voler aprire altri ristoranti a Londra e New York.
A confronto con la sua monumentale energia chiunque soccomberebbe. Solo Jean Reno erede legittimo della linea Gabin -Ventura poteva reggere. In Tais-toi!i suoi silenzi, le sue impercettibili ed esilaranti irritazioni, la sua capacità di sciogliere il volto di pietra in improvvisa commozione e lo sguardo tenebroso che sa diventare trasparente, tengono testa alla strabordante vitalità di Depardieu. Chi è il comico e chi la spalla? Difficile dirlo. Reno è grande ma non può vincere. Perché in Quentin c’è la storia di un attore totale, Quello che ogni regista ha desiderato: da Truffaut e Godard passando per Andriej Wajda, Alain Resnais, Maurice Pialat fino a Ridley Scott. Una storia che arriva dalontano e abbraccia pietre miliari dell’intero immaginario del cinema europeo: da Olmo contadino emiliano anarco-socialista (“Novecento” di Bernardo Bertolucci), al tranquillo borghese innamorato della “Signora della porta accanto” (capolavoro di Tniffaut) fino al disperato maschio che si evira con un coltello elettrico (“L’ultima donna” di Ferreri). Più travestiti (“Lui portava i tacchi a spillo” di Bertrand Blier) e scioperati stalloni capaci di sedurre signore per bene (“Loulou” di Pialat).
E ora anche se in “Tais-toi!” Jean Reno è
straordinario, nell’ultima immagine che chiude il film sul volto dei due grandi mattatori francesi, gli occhi del pubblico rimarranno puntati sul sorriso ebete e tenero di Qùentin e su un Depardieu finalmente ritrovato. Ci si può giurare. s
Da L’Espresso, 13 novembre 2003
La passione per la buona tavola di Gérard Depardieu è cosi proverbiale che ha voluto recitare la sua propria morte per indigestione nel nuovo film di Mimmo Calopresti, intitolato, appunto, L'abbuffata. Interpreta se stesso: il divo che regala la sua partecipazione al film di quattro giovani e improvvisati cineasti calabresi. Per ringraziarlo s'imbandisce un pranzo di paese altrettanto generoso. E fatale: sul necrologio si leggerà: «Gérard Depardieu, un cuoco prestato al cinema». Cibo e morte. Spunto gaio per cominciare un'intervista. «Anche in La grande abbuffata di Marco Ferreri c'era questa relazione temibile: alcune persone si chiudono in casa e mangiano fino a morire. Era il 1973, ma nel cinema di Marco c'erano idee chiare e geniali che prevedevano come saremmo diventati, come avremmo vissuto. Con L'ultima donna, in pieno femminismo, mi fece evirare con un coltello elettrico. Allora era fantascienza, oggi è la realtà: con Ferreri, Mastroianni, Tognazzi ridevamo su queste previsioni, ora rido da solo. A sessant'anni adoro il futuro ma lo sopporto solo col sostegno dei ricordi, che provo a riprodurre anche coi sapori, le prime memorie a fissarsi nella mente. Non dimenticherò mai la pasta ai frutti di mare che mi fece Tognazzi: capii che in cucina puoi mescolare tutto».
I buoni sapori del passato contro la confusione dal nuovo?
«Nei sapori c'è la storia dei luoghi, degli uomini, delle culture: è rassicurante. E voi italiani siete più bravi di noi a custodire questo patrimonio. Oltre ai miei due ristoranti penso di aprirne un altro, di prodotti italiani. Adoro la polenta, quando giravo Novecento l'ho assaggiata con lo stracotto d'asino, non sapevo si mangiasse l'asino. I vostri sapori sono meno omologati: si sente la natura, la fermentazione, la vita».
Sentire la vita nella carne macellata sembra un ossimoro. «I vegetariani dicono che non mangiano la carne perché non digeriscono l'agonia. Hanno ragione.
Quando uccido un maiale, un agnello o un pollo - non allevato certo in batteria - non lo sottopongo mai allo stress che subiscono gli animali degli allevamenti industriali. Lo carezzo anche, il maiale. Ma sono un caso a parte: voglio vedere, toccare, conoscere gli allevatori, gli agricoltori, gli artigiani che sono dietro il ciclo produttivo del cibo. Se tratti un animale con amore, le sue carni non saranno mai morte, ma vive».
Ristoratore e anche produttore di vini. Quante tenute ha?
«Tanti piccoli appezzamenti: in Borgogna, Bergerac, Anjou, Languedoc, Marocco, Algeria, Spagna, Portogallo, Argentina...».
Quindi, ogni film o viaggio che fa, si compra una vigna.
«No, non puoi arrivare e insediarti: bisogna farsi conoscere, desiderare, essere graditi. Un po' come con gli animali. Io sono curioso, prima devo vedere e assaggiare tutto».
La smania del gusto nuovo è un elemento forte della haute cuisine: non è un po' perversa la corsa alla ricetta inedita, al sapore mai assaggiato?
«Un po' lo è. In Francia c'è gente che aspetta tre mesi per un tavolo in uno di questi ristoranti sofisticati. Ma io posso sognare un piatto, aspettarlo tre mesi no. I grandi chef sono ormai costretti a questa ritualità, una ricerca partita dal cuore è diventata tutta di testa, di soldi, di moda. Ma l'inseguimento del nuovo, è cosa vecchia: risale a François Vatel, il maestro di cerimonie del principe di Condé, che ho interpretato in un film: si suicidò perché non arrivava il pesce per il pranzo in onore di Luigi XIV. Diede il via alla nuova cucina, alla decorazione del piatto da mangiare con gli occhi. Oggi, però, i cuochi sono delle specie di designer, e i sapori di una volta si sono perduti».
Un'elegia della semplicità?
«Amo i cibi semplici: l'agnello, il gusto delle verdure che si fonde con gli altri, le cotture lente, le zuppe. Dove la carne va aggiunta sempre cruda».
È prevista la pentola a pressione per queste cotture eterne?
«Meglio il forno a vapore: la pressione omogenea non disintegra l'alimento. La cottura è come l'abbronzatura: va presa su tutti i lati».
Che differenza c'è fra un uomo e una donna in cucina?
«Una donna nasce madre, un uomo diventa padre. In cucina è la stessa cosa: le donne hanno col cibo un rapporto più naturale e profondo. Ma può essere un handicap: le stelle vanno soprattutto ai grandi chef maschi».
Lei ha cinque bypass...
«E il colesterolo, e venti chili in più. Ma so stare senza mangiare, nel deserto mi è capitato. Questione di testa: avrò perso 700 chili in vita mia».
Per esigenze di ruolo?
«I ruoli io li ho fatti tutti. E poi non assomiglio al mio corpo. Ci sono due o tre persone dentro, c'è un'immagine che non mi piace tanto e poi c'è l'energia, una specie di luce: dipende solo dalle prime carezze e le prime sensazioni avute da piccolo».
Mangiava bene da piccolo?
«Si, anche se c'era la carne solo la prima settimana del mese. Eravamo poveri, ma io rubacchiavo qualcosa e mia madre preparava. Poi ho fatto tanti film e, nelle pause, niente di meglio che mangiare. E cucinare».
Da Il Venerdì di Repubblica, 26 ottobre 2007