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Rassegna stampa di Abbas Kiarostami

Abbas Kiarostami. Data di nascita 22 giugno 1940 a Teheran (Iran) ed è morto il 4 luglio 2016 all'età di 76 anni a Parigi (Francia).

LUIGI PAINI
Il Sole-24 Ore

No, non è per tutti. Il cinema di Abbas Kiarostami, il più noto dei registi iraniani, è l’esatto contrario di quanto passa solitamente sul grande e piccolo schermo. Sovrumani silenzi, esasperate lentezze, attenzione ai minimi dettagli: un volto, un albero, una strada che si perde all’ orizzonte. È un cinema che arriva alla concretezza dopo il deserto dell’astrazione, che, ogni volta, prima schiaccia lo spettatore, poi lo libera magicamente, con un miracolo rivelatore. Attraverso la “falsità” delle riprese, scrutando la realtà nei suoi segreti, appare alla fine il dono sublime della verità. Avveniva in Dov’è la casa dei mio amico, il primo film che lo fece scoprire in Occidente sul finire degli anni 80, e di nuovo in Close-up, E la vita, Sotto gli ulivi, Il sapore della ciliegia, Il vento ci porterà via.

BRUNO FORNARA
Film TV

Alla fine di La casa del mio amico, un vecchio e un bambino camminano insieme. dice il vecchio: “se non parlo, posso camminare più svelto”. risponde il bambino: “Va bene, allora non parlare”. Di solito si parla poco nei film di Kiarostami: si cammina tanto, spesso si va in macchina e ci si guarda intorno. È come se non si dovesse fare un film ma registrare situazioni, cogliere il perdurare degli attimi, pedinare persone, ammirare una distesa di ulivi, seguire un uomo che sale e scende dieci volte da una collina per riuscire a parlare al cellulare. Kiarostami insieme ai migliori registi iraniani ha stretto un tacito accordo con le strade, gli alberi, le montagne, i paesaggi e le persone del loro paese. Si è parlato di neorealismo, a proposito di questo cinema. Il che è vero, ma c’è dell’altro. Di vero c’è che i registi scelgono il paesaggio come sfondo naturale, ricorrono ad attori non professionisti, guardano alle disavventure degli umili: insomma credono al reale com’è. Come diceva Rossellini: il mondo è lì, basta guardarlo. Ma anche, come diceva sempre lui: il mondo è lì, tocca a noi metterlo in scena. I cineasti iraniani, Kiarostami in testa, seguono questi due sacri precetti e ne aggiungono un terzo: già che stiamo guardando il mondo e mettendolo in immagini, osserviamoci anche mentre lo facciamo. Tempi dilatati, larghi spazi naturali, un minimo spunto narrativo e Kiarostami costruisce un film che riflette il mondo e riflette sul cinema. Dai primi lavori girati per l’Istituto per lo sviluppo intellettuale dei bambini e adolescenti (uno spazio di libertà nell’iran islamico) a Il viagiatore (1974), a Close-up, abissale riflessione sul fumare, ai film più recenti e premiatissimi, l’emozionante E la vita continua, l’amoroso Sotto gli ulivi, il disperatamente laico E sapore della ciliegia, il misterioso Il vento ci porterà via,fino allo straziante documentario sull’Aids ABC Africa e all’ultimo, automobilistico Dieci, Kiarostami si è messo in viaggio su e giù per l’Iran, guarda, ascolta, inventa. Fa grande cinema con passo tranquillo, percorre e misura palmo a palmo la sua terra. Cinema di osservazione e invenzione, spontaneità e rigore, leggerezza e profondità, imbarazzo e raffinatezza. Cinema come fraternità di rapporto tra chi guarda e chi è osservato. Intorno a Kiarostami s’è come formato un vivaio, registi nuovi, si fanno avanti, qualcuno ha dovuto andarsene, come Amir Naderi che fa film a New York. I film iraniani sono ben presenti sulla scena internazionale, ogni tanto si appanna la vena, qualche film è costruito per i festival occidentali, poi si ritorna sulla strada giusta. C’è la dinastia dei Makhmalbaf, c’è Jafar Panahi dei petulante Il palloncino bianco e del Leone d’oro II cerchio, c’è Babak Payami dello sconcertante Il voto è segreto, costretto a presentare a Venezia Il silenzio tra due pensieri in versione di fortuna dopo il sequestro dei negativi. C’è soprattutto Abolfazl Jaliui, che a Venezia ha portato l’appassionante Abjad, storia di un ragazzino che, sotto scià e ayatollah, si fa strada fino a impugnare la sua prima cinepresa. Insomma, cinema di battaglia. Nei Silenzio fra due pensieri, una bambina chiede alla silenziosa ragazza condannata a morte: “Hai peccato?”. Risposta: “Nessuno pecca”. Cinema dalla parte della libertà.

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