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Tatami, una grande storia di coraggio al femminile raccontata in modo asciutto e deciso. Un film da K.O.

L’israeliano Guy Nattiv e l'iraniana Zahra Amir Ebrahimi (anche co-protagonista) raccontano nitidamente, senza divagazioni, una piccola grande storia di donne alle prese con la scelta più difficile della loro vita. Dal 4 aprile al cinema.
di Giovanni Bogani

Zahra Amir Ebrahimi 1981, Teheran (Iran). Interpreta Maryam nel film di Zahra Amir Ebrahimi, Guy Nattiv Tatami. Al cinema da giovedì 4 aprile 2024.
mercoledì 3 aprile 2024 - Focus

C’erano lacrime e applausi, quando Tatami è stato presentato a Venezia, nella sezione Orizzonti, lo scorso settembre. E noi eravamo al tappeto, stesi. Andate a vederlo, adesso che esce al cinema. Andate a vederlo, anche se sembra un piccolo film in bianco e nero. È potente, forte, travolgente, come una presa improvvisa che ti sbatte giù. Maitta, ko. 

Tatami è un grande film non solo per la valenza politica del suo racconto. Non solo perché racconta una grande storia di coraggio femminile. Neppure perché è un film che, già nella sua vicenda produttiva, fa la Storia: è la prima co-regia fra un israeliano – Guy Nattiv, premio Oscar per il cortometraggio Skin – e una iraniana – Zar Amir Ebrahimi, che del film è anche coprotagonista. Teniamo in mente che in Iran è proibito persino dire la parola “Israele”, che viene nominata come “il paese occupante”. E che Israele e Iran si definiscono a vicenda “The Great Satan”. 

Beh, non è ancora questo. Il fatto è che Tatami racconta tutto questo in maniera cinematograficamente possente, asciutta, decisa. Tutto ha un senso, tutto costruisce il senso. Anche il formato del film, quel 4:3 antico, demodé, che inscrive ogni corpo e ogni volto dentro uno spazio quasi quadrato, simile al tatami che accoglie e chiude i combattimenti di judo. 

Ha senso il bianco e nero, un bianco e nero che non permette ai colori di intervenire ad alleggerire la storia. E che richiama certi film classici, dove i pugili si massacravano sul ring, in bianco e nero. Body and Soul, del 1947, o The Set-Up, del ’49, o Il grande campione con Kirk Douglas. O anche uno dei primissimi lavori di Kubrick, Day of the Fight, del 1951. O Lassù qualcuno mi ama con Paul Newman

E ha senso la chiusura anche spaziale del film, che non esce quasi mai dal campo sportivo in cui si giocano i destini delle due protagoniste. Il fuori campo è un salotto in Iran, la casa di lei: il volto del marito, i vicini raccolti a guardare la televisione. Per il resto, tutto rimane chiuso nel Palazzo dello sport di Tbilisi, come fosse il palcoscenico di una tragedia greca. 

Ma non si tratta, in nessun caso, di esercizi di stile. È ricerca di essenzialità. Raccontare nitidamente, senza divagazioni, come se anche noi fossimo chiusi dai confini di un tatami, la storia di donne alle prese con una scelta. La più difficile della loro vita. 


In foto una scena del film Tatami.

Il regime iraniano non lo vedi. Lo senti respirare addosso alle protagoniste. Lo vedi, quando un uomo spunta quasi dal nulla e mostra alla atleta l’immagine di suo padre tenuto in ostaggio. Perché lei obbedisca, e finga un infortunio, perché si ritiri dai Mondiali, dove corre il rischio di affrontare l’avversaria israeliana, e dunque doverla riconoscere, farle l’inchino rituale, e magari anche essere da lei sconfitta. Il regime non può tollerare quell’incontro. E allora Leila dovrà chinare la testa, dovrà abbozzare, dovrà fingere un infortunio. 

In una canzone degli anni ‘70, “Un giorno credi”, Edoardo Bennato racconta proprio un bivio identico, e crea un’immagine poetica analoga. “A questo punto non devi lasciare; qui la lotta è più dura, ma tu se le prendi di santa ragione insisti di più”. L’alternativa è vedersi, in vecchiaia, “raccontare a tutta la gente / del tuo falso incidente”. 

Laila, la protagonista, non vuole raccontare al figlio, un giorno, del suo falso incidente. E il film è palesemente un omaggio a tutte le persone che non hanno chinato il capo. E che a causa del regime iraniano hanno perso il diritto di parlare, o di fare film. Hanno perso la libertà e talvolta la vita. 

Zar Amir Ebrahimi è oggi un’icona delle proteste contro il regime. È fuggita dall’Iran dopo che un video intimo era stato diffuso da un suo ex, e lei rischiava frustate e la fine della sua carriera di attrice. La sua immagine è stata cancellata dai film ai quali stava lavorando, e le scene che la vedevano protagonista sono state rigirate con altre attrici. Zar è stata condannata alla prigione e a cento colpi di frusta. Il giorno del processo, nel marzo 2008, è fuggita a Parigi. “Non volevo presentarmi davanti a un tribunale di uomini, parlare loro della mia vita sessuale e del mio corpo”. Da esule iraniana, ha interpretato Holy Spider di Ali Abbasi, che le è valso il premio come migliore attrice a Cannes 2022. Il ministero iraniano della cultura ha condannato il festival di Cannes per averla premiata, definendo il premio “insultante”. Lei ha dichiarato alla CNN di aver ricevuto, da quel momento, almeno 200 messaggi di minacce. 


In foto una scena del film Tatami.

Girato in segreto a Tbilisi, Tatami è un atto di accusa, nitido e diretto, contro il regime iraniano. Ma è soprattutto un gran film, appeso agli occhi di Arienne Mandi, la protagonista, americana di origine cileno/iraniana. Arienne ha una grande fisicità, è credibile quando affronta i combattimenti, ma riesce a mostrarsi un secondo dopo una madre intenerita, e una donna smarrita, terrorizzata dal peso della scelta che è chiamata a fare. Allo stesso modo, restiamo appesi allo sguardo di Zar Amir Ebrahimi, che interpreta la sua allenatrice. Sguardi fissi, pronti a esplodere. Occhi che assorbono colpi su colpi, occhi che stanno per arrendersi, per spegnersi. Ma non lo fanno. 

Non ci sono grandi scene di massa, riflessi “collettivi” della loro battaglia personale, non ci sono manifestazioni popolari. Ma basta una scena, a farci capire quanto sia forte la battaglia delle due donne. Il momento in cui Leila è in debito di ossigeno, non riesce più quasi a respirare. Dopo un intervento medico, torna a combattere. Ma togliendosi l’hijab elastico che le comprime la testa. Si toglie l’hijab, obbligatorio per una donna in Iran. I capelli li liberano, per un breve attimo. E si libera anche lei. Una scena potentissima nella sua semplicità

È lo stesso gesto delle manifestanti iraniane che si sono tolte il velo in segno di protesta, nei cortei dopo la morte di Mahsa Amini, la 22enne curda iraniana, massacrata dalla polizia per aver indossato l’hijab in modo “sbagliato”, e morta dopo le percosse degli agenti. Una rivolta di cui Zar Ebrahimi si è fatta sostenitrice e portavoce. 

È cinema diretto, forse semplice, ma mai banale. Conflitti forti, personaggi empatici, atmosfere da film noir. Diverso dal realismo minuto e “rosselliniano” di Kiarostami, da quello del suo amico Makhmalbaf, diverso anche dall’energia e dall’allegria adolescenziale che esplodevano nell’altro film che legava sport e controllo del regime, Offside di Jafar Panahi, Orso d’argento a Berlino 2006. Diverso anche dal cinema intellettuale, sfaccettato, sottile di Asghar Farhadi, per restare ad alcuni di coloro che hanno fatto grande il cinema iraniano nel mondo. Ma una voce nitida, forte, coinvolgente, un grido contro un regime che continua a tappare la bocca e a bloccare la vita di tante persone. 


In foto una scena del film Tatami.

Tante le storie che si riflettono in quella, fittizia, di Laila. In primis, quella di Saeid Mollaei, la judoka iraniana che a Tokyo 2019 ricevette il “suggerimento” di abbandonare il tatami, e che abbandonò l’Iran, prendendo cittadinanza mongola. Ma anche la vicenda di Sadaf Khadem, la pugile iraniana che nel 2019 ha rifiutato di indossare l’hijab in una gara. O quella della campionessa di taekwondo Kimia Alizadeh che nel 2020 ha trovato asilo politico in Germania, dopo aver denunciato il governo iraniano. 

Ah. Un’ultima, brevissima considerazione “cinematografica”. In un film americano, la medaglia d’oro da conquistare sarebbe stata il punto verso cui tutte le linee del film avrebbero dovuto inevitabilmente convergere. Verso cui tutto il film avrebbe dovuto tendere, con un finale epico o tragico. Beh, qui no. Perché la vera medaglia d’oro è un’altra. È riuscire a sapere che cosa fare della propria vita. 


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