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Qui rido io, l'irresistibile antropologia napoletana di Martone

Per l’istantanea della poesia, del sentimento, della cultura, dello sberleffo, della morale-amorale, del colore, del folclore, dell’antropologia, Scarpetta e il suo mondo sono lo strumento perfetto. Nelle mani dello strumentista migliore. Qui rido io. Capolavoro. In Concorso a Venezia 78 e ora al cinema.
di Pino Farinotti

Qui rido io

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Toni Servillo (65 anni) 25 gennaio 1959, Afragola (Italia) - Acquario. Interpreta Eduardo Scarpetta nel film di Mario Martone Qui rido io.
giovedì 9 settembre 2021 - Focus

È come se Martone avesse predisposto un museo, non classico o normale, ma ideato da un genio visionario come Antoni Gaudì. Disponendo gli ambienti per ospitare la Commedia, che non sarà divina, ma non è neppure del tutto terrena, è napoletana, con tutto ciò che può significare se esplori in profondità quella foresta. E Mario non ha neppure bisogno di un Virgilio accompagnatore, gli basta Martone, perché nessuno conosce quel mondo come lui. Nella vicenda di Eduardo Scarpetta, avvolta nella napoletanità più completa, il regista ha potuto esprimere tutte le sue attitudini, che sono, oltre al cinema, il teatro, la scrittura, e una visione estetica che ha espresso in un sortilegio che accorpa la Napoli dei rioni, delle magioni borghesi, degli sprazzi di mare, degli interni urlanti, soprattutto dei palcoscenici delle stagioni incantate del divo Scarpetta, verso la fine dell’ottocento.

E Martone si concede un promemoria quasi completo, proprio all’inizio, quando rappresenta "Miseria e nobiltà", il titolo-mito del comico, nei panni di Felice Sciosciammocca, il suo alter ego.

Un ambiente del museo Gaudì può ospitare la famiglia di Scarpetta, mogli, amanti, figliolanza più che allargata: da neonati a giovanotti. Tutti tenuti d’occhio e indirizzati. Scarpetta era il padre dei De Filippo, che comunque non riconobbe mai. I 133 minuti del film danno molte possibilità all’autore. Il tema centrale è il famoso processo che D’Annunzio intentò a Scarpetta per il plagio della sua opera "La figlia di Iorio". Il processo diventa un caso-pretesto per contrapporre due culture opposte. Si schierano “contro” giganti dello spettacolo e della scrittura come Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio e Roberto Bracco, fautori di un’arte napoletana popolana ma seria, mentre Scarpetta è solo un attore che fa ridere. Ma col comico si schiera Benedetto Croce, nientemeno, che proprio perché Scarpetta fa ridere su un testo nato drammatico, non è dunque condannabile. L’imputato, in tribunale, si difende alla sua maniera, da attore comico, è intelligente e travolgente. Fa ridere tutti i presenti, giudice compreso, riuscendo persino a mettere in ridicolo il grande vate D’Annunzio. E viene assolto.

La musica, il canto, la parola. Martone usa la musica come un attore protagonista, che non si limita al normale tappeto di sostegno delle colonne classiche. La musica sono le grandi canzoni napoletane che accompagnano il racconto integrate come una chimica. Ce ne sono molte inserite, puntuali, aderenti al momento del racconto. Sì, c’è anche della scaltrezza. Un momento esemplare: Scarpetta cammina nel buio nei vicoli e arriva la voce di Murolo che canta "Voce ’e notte". Quanti punti portano allo spettacolo, e al cuore, questi versi di Salvatore Di Giacomo? "Si 'sta voce te scéta 'int' 'a nuttata. Mentre t'astrigne 'o sposo tujo vicino... Statte scetata, si vuó' stá scetata, Ma fa' vedé ca duorme a suonno chino".

E poi la lingua napoletana, attraverso quelle voci di attori, che sono a loro volta strumenti musicali come gli archi e gli ottoni. Il tutto in quel paese delle meraviglie, figuriamoci per un Martone, che sa  sistemare ogni cosa. 

E mi pare di aver visto, nella “pittura” del regista qualche richiamo alla magnifica Scuola napoletana di due secoli prima. Con contrasti cromatici e momenti di espressione che dettarono pittura in quelle stagioni. Certo con costumi e scenari diversi. I nomi sono quelli di un Fabrizio Santafede, o di un Massimo Stanzione. Ma forse è una mia suggestione, non so se lo è anche di Martone. Glielo chiederò.

Titina, Eduardo e Peppino, li vediamo bambini e ragazzi. Peppino è il più ribelle, percepisce di non essere amato come gli altri. Scarpetta cerca di farlo recitare ma lui salta giù dal palcoscenico, scappa. Vuole la libertà, lo dice. Lo blocca Eduardo, gli dice: “Quella è là la tua libertà! “E gli indica il palcoscenico. “I tre fratelli” raccontato i titoli di coda “furono la compagnia più popolare d’Italia, mentre Eduardo è stato uno dei più grandi autori di teatro del mondo”. Ma lo sapevamo.

E poi Toni Servillo. La mano magica del regista. Non ci sono aggettivi per lui. Occorre inventarne.

Per l’istantanea della poesia, del sentimento, della cultura, dello sberleffo, della morale-amorale, del colore, del folclore,  dell’antropologia, Scarpetta e il suo mondo sono lo strumento perfetto. Nelle mani dello strumentista migliore. Qui rido io. Capolavoro.


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