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Fortuna, un cinema disegnato, non banale, che sfodera tutte le armi del linguaggio visuale

Gelormini opera per vuoti, strappi, tagli: lavora sul film come Fontana sulle sue tele. Rende il reale allucinatorio, fa passare quasi tutto dalle immagini e dai suoni più che dalle parole. Ma non ha torto. Al cinema.
di Giovanni Bogani

Fortuna

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Cristina Magnotti . Interpreta Nancy / Fortuna nel film di Nicolangelo Gelormini Fortuna.
giovedì 27 maggio 2021 - Focus

C’è un cinema italiano figlio, nipote e bisnipote del neorealismo, sciacquato e diluito dal detergente della commedia, un cinema che riprende ma non inquadra, e poi c’è un altro cinema.

Per esempio, ecco il film d’esordio di Nicolangelo Gelormini, napoletano, architetto di formazione, già aiuto regista di Paolo Sorrentino. È un cinema che sfodera tutte le armi del linguaggio visuale, che sembra mettere in una provetta Wes Anderson e David Lynch, Sofia Coppola e Spike Jonze. È un cinema disegnato, fatto di inquadrature millimetriche, di spinte violente sull’acceleratore e brusche frenate con il montaggio e con il suono. E nasce Fortuna. Film d’esordio non banale, e non fine a se stesso.

Ricorda Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, il film più discusso e più esaltato dell’anno scorso: ma Fortuna è stato diretto prima, non c’è un’influenza reciproca. C’è, forse, un clima comune, un’aria che si respira. Parte del cinema italiano fugge dal realismo. Una lunga scia che passa, in forme e modi differenti, da Sorrentino fino a Gabriele Mainetti, passando persino da Salvatores, da Cosimo Gomez, dai Manetti Bros. Ma non andiamo tanto lontano, torniamo a Fortuna.

È un film che cerca il disorientamento dello spettatore, con effetti forti. Dalla prima immagine: la ruota di un Luna Park che gira, gira all’infinito, mentre scorrono i titoli, e poi sembra catapultare sulla terra la protagonista. Ed è lei il primo effetto speciale. La piccola attrice, Cristina Magnotti, era la protagonista dei primi episodi de L’amica geniale, era la bambina bionda, Marisa Sarratore. Qui ha lo stesso sguardo quasi alieno, che assorbe, che sembra sapere già tutto. Ha capelli monumentali, e un’anima fragile. È disorientata, non parla, è sottoposta continuamente a incontri con una psicologa che digita compulsivamente sullo smartphone invece di ascoltarla.

Ci metti un po’ per entrare dentro il linguaggio visivo di Gelormini, che ritaglia davanti ai nostri occhi un mondo mostruoso: spazi desolati, casermoni pieni di corridoi, geometrie di spazi vuoti, come se invece che vicino a Napoli fossimo sulla Luna. La realtà la scopri con fatica: la realtà, forse, la vedi davvero solo nei titoli di coda.

Uno dei fatti di cronaca più orribili della storia recente, la morte di una bambina di sei anni, caduta dall’ottavo piano di un palazzo al Parco verde di Caivano, vicino Napoli, nel 2014, è l’evento tragico e reale sotteso a tutto il film. Una tragedia non casuale: l’epilogo di una storia di abusi, violenze sessuali, connivenze, silenzi durati anni.

E tu spettatore, dopo lo shock iniziale, diciamo dei primi quindici minuti, ti rendi conto che magari è proprio questo un modo meno abusato, meno usurato e dunque più efficace per raccontare una storia del genere. Uno stile realistico avrebbe attivato in noi gli anticorpi del già visto, del retorico. Questo fantarealismo spezzato, in cui tutto si frantuma, in cui addirittura le sequenze si bloccano di botto, precipitando in un silenzio e in un nero – non una dissolvenza: proprio un abisso improvviso di nero – o in cui, al contrario, la voce della bambina che canta Babbino caro viene travolta da un’ondata di rock, beh, taglia la palpebra chiusa delle nostre abitudini, forse riesce persino a farci vedere.


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