Il nuovo lavoro del regista è un film libero, spudorato e bambinesco, stordente al punto giusto per tenere lontani gli spielberghiani occasionali e poco sinceri. Al cinema.
di Roy Menarini
La giovinezza di Spielberg sembra infinita. Non si tratta solamente di sorprendersi perché questo infaticabile settantunenne sforna un film dietro l'altro o per l'adeguamento - ogni qualche anno - alle più recenti forme di elaborazione visiva degli effetti digitali, ma proprio per la capacità di rinnovare la riflessione sul cinema. Ready Player One è capace di proporsi al tempo stesso come il film più pop che si possa immaginare e quello più profondamente teorico degli ultimi anni.
Ben lungi dall'essere contraddittorio rispetto all'umanesimo di The Post (con cui anzi costituisce un binomio di assoluta coerenza), Ready Player One è forse il più completo racconto sui videogame all'interno di un rapporto - quello tra mezzo cinematografico e mezzo videoludico - che notoriamente non ha sortito grandi risultati (se non quelli "indiretti" di Matrix o Inception).
L'immersione nel mondo di Oasis non è affatto, come qualcuno si ostina a credere, una metafora del cinema contemporaneo ma un esempio della nostra relazione con i media digitali. Scartando l'opzione nostalgica di Stranger Things (comunque importante, per come ha compreso gli anni Ottanta come modello di riferimento narrativo e immaginario), Spielberg costruisce una perfetta analisi dei media contemporanei, e ci spiega che il gioco o l'avventura altro non sono che uno schema di comprensione del mondo, un mezzo per conoscere noi stessi, i limiti delle nostre identità e le regole sociali. Nella sequenza più sorprendente, gli esseri umani (tutti dotati di un casco per la realtà virtuale) sembrano ipnotizzati in massa e si muovono come automi in una sorta di involontario flash mob: in verità si trovano su Oasis e stanno portando la rivoluzione nel mondo virtuale, che in quel momento è essenziale per le sorti del mondo reale. Un ribaltamento di prospettiva rispetto alla solita dinamica del risveglio dall'illusione per trovare il proprio posto nel mondo: l'idea di Ready Player One è che possa esistere una ecologia dei media, che sia bello giocare e reinventarsi, che non ci sia nulla di male nell'enciclopedia pop, a patto di trovare una misura uman(istic)a e di stabilire una cultura.
Non è una sorpresa che Spielberg sia fedele al suo credo democratico e alla sua speranza di ritrovare un "americanesimo" in grado di coniugare sviluppo, capitalismo e democrazia popolare, e sarebbe ingeneroso imputargli sentimenti utopistici nel momento in cui il mondo occidentale sembra andare (politicamente) in tutt'altra direzione. È una visione del presente completa e profonda.
Veniamo alla questione più specificamente cinematografica. L'idea di base - che Spielberg ovviamente condivide con l'autore del romanzo Ernest Cline - è quella che i film e i videogame del passato (quelli che venivano considerati postmoderni per come frullavano opere e media antecedenti) diventino oggi un nuovo archivio. Quasi un classico.
Consapevole che il cinema è un infinito generatore di miti contemporanei, per Spielberg non c'è differenza tra King Kong e Buckaroo Banzai, Shining o Il gigante di ferro, perché i nuovi media tendono a inglobare tutto, appiattendo differenze e gerarchie artistiche. Dunque, piuttosto che arroccarsi e difendere l'intoccabilità del canone, il regista decide di riprocessare il suo intero approccio al cinema in nome di un film-spettacolo che avrebbe tranquillamente essere opera di registi come Lord e Miller o Michael Bay, con la differenza che Spielberg è più radicale - basti vedere come celebra Kubrick senza rinunciare a una distruzione spericolata e ludica del suo immaginario.
E dunque, la fatica con cui la critica e le élite culturali hanno accolto Spielberg nei piani alti del cinema d'autore (ma quasi sempre solo con i film più "seri"), è destinata a ripresentarsi con Ready Player One, davvero libero, spudorato e bambinesco, stordente al punto giusto per tenere lontani gli spielberghiani occasionali e poco sinceri.