La mossa del cavallo - C'era una volta Vigata

Montelusa, 1877. Il nuovo ispettore ai mulini Giovanni Bovara è nato a Vigata da madre siciliana ma è cresciuto a Genova e ha prestato servizio solo al centro-nord. Bovara decide di effettuare alcune ispezioni a sorpresa perché sospetta che i delegati locali facciano parte di un sistema di connivenze ed evasioni fiscali che fa capo a due dei notabili del paese. Nel suo zelo incorruttibile però Bovara si scontra con una rete di potere paragonabile al moderno crimine organizzato, ma gestita alla luce del sole dalla borghesia locale. In parallelo si dipana a Montelusa la vicenda di Padre Carnazza, che con grande disappunto del cugino Memè Moro svende l'eredità di famiglia per assicurarsi i favori sessuali della giovane vedova Trisina Cicero.

Come spesso succede nei romanzi di Andrea Camilleri, due vicende finiscono per intrecciarsi e influenzarsi reciprocamente, diventando un'unica inchiesta.

"La mossa del cavallo" è un "poliziesco storico" pubblicato dall'autore siciliano nel 1999, e non tragga in inganno il fatto che, nel film televisivo, l'ispettore Bovara è interpretato da Michele Riondino, alias il giovane Montalbano. Perché se è vero che Giovanni Bovara è in qualche modo antenato di quel Salvo Montalbano che cercherà di difendere la giustizia a Vigata, è anche vero che ha una sua identità letteraria ben distinta. E mentre Salvo è siciliano fin nel midollo, e confina le sue frequentazioni con il nord alla compagna Livia, Giovanni è talmente imbevuto della cultura "nordista" all'interno della quale è cresciuto da non comprendere i comportamenti degli abitanti di Montelusa, e dunque non saperne anticipare le mosse. Ci vorrà la mossa del cavallo, quella più imprevedibile sulla scacchiera, per affrontare la partita locale, e il giovane ispettore dovrà riaffondare nelle proprie radici per dare un senso alla ragnatela che gli si sta costruendo intorno.
Gianluca Maria Tavarelli struttura il suo film televisivo come un western, ispirandosi a Sergio Leone e a Quentin Tarantino (con un tocco di Serpico nella scena in cui Bovara insiste per pagare le proprie consumazioni), movimenta bene le scene evitando la banalità del "campo e controcampo" televisivo e calca sulla componente grottesca della storia, incarnata da due personaggi che paiono usciti dall'episodio La giara di Kaos dei fratelli Taviani (oltre che dagli spaghetti western): Memè Moro e il delegato di polizia Spampinato, interpretati rispettivamente da Maurizio Bologna e Cocò Gulotta.

Il personaggio più sulfureo, e l'attore più sottile, è l'avvocato Fasulo, che ha il volto di Filippo Luna. Molto meno preciso Michele Riondino che, per gran parte della storia, utilizza un accento "del nord" davvero improbabile, in una storia dove la componente linguistica è di fondamentale importanza, e la ricerca semantica corrisponde alla riscoperta identitaria.
Discutibile l'assunto per cui il nord fosse necessariamente integerrimo e il sud irrimediabilmente corrotto: l'unico tutore della legge siciliano onesto del racconto è il giudice Pintacuda, che peraltro interagisce solo con il procuratore piemontese Rebaudengo. Quel che è indiscutibile invece è il meccanismo di potere delineato da Camilleri, ancora tristemente attuale, e non solo al sud.
La mossa del cavallo stratifica la propria complessità narrativa "pirandelliana" a mano a mano che la storia procede, migliorando la qualità della scrittura (di Francesco Bruni, Leonardo Marini e dello stesso Camilleri) nel terzo atto e ricostruendo quel "raggionamento alla Sciascia" secondo cui "non sempre due più due fa quattro". La sceneggiatura è però indebolita dalla "schizofrenia" del personaggio di Bovara, che passa bruscamente da integerrimo tutore della legge a vittima piagnucolosa a vendicatore. In queste trasformazioni repentine ha un ruolo la sua natura di "meridionale rinnegato", il che è disturbante quanto la scelta di polarizzare l'onestà e disonestà lungo il confine fra il nord dal sud dell'Italia appena unita. 