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The Rider: c’era una volta il West(ern)

Un'opera che risveglia il sentimento perduto delle origini e che sostituisce i miti positivi dei classici con altri miti. Al cinema dal 29 agosto.
di Marzia Gandolfi

martedì 20 agosto 2019 - Focus

Se sono i film hollywoodiani a nutrire il desiderio segreto di stabilirsi in Occidente, è tutta cinese la fascinazione di Chloé Zhao per i luoghi dove il sole tramonta. E il suo secondo lungometraggio, The Rider è interamente bagnato dalla luce del tramonto che non produce solo delle belle immagini ma la metafora luminosa che attraversa il film: la vita dei cowboy-Sioux sta sfumando e di quella vita osserviamo gli ultimi bagliori crepuscolari.
Cresciuta nella Cina comunista degli anni Novanta, la regista scopre il cinema americano e trasloca a New York, dove matura la questione dell'identità e dell'esilio al cuore dei suoi film: Song My Brothers Taught Me, inedito in Italia, e The Rider. Girati entrambi nella riserva indiana di Pine Ridge, nel Dakota del Sud, hanno per eroi dei Sioux della tribù dei Lakota, che interpretano il proprio ruolo o quasi. Eredi di Sitting Bull (Toro Seduto) e Crazy Horse (Cavallo Pazzo), massacrati a Wounded Knee dall'esercito americano (1890), i discendenti dei vinti sposano i costumi spettacolari dei vincitori e incarnano il versante del western eternamente nell'ombra.

Del western in The Rider restano soltanto le tracce, i ricordi di gloriose cavalcate disarcionate dalla mercificazione. Oggetto di commercio, il cavallo non si monta che per essere domato e venduto a ricchi amatori.
Marzia Gandolfi

Segno di un attaccamento a un modello di vita trasmesso attraverso le generazioni, il cavallo è insieme il sintomo di un malessere che consuma la sua comunità. La tradizione è vivace ma sclerotizzata come la mano del suo protagonista, grande promessa del rodeo costretto a riconvertirsi in commesso dopo una brutta caduta. Fedele allo stesso décor e naturale e a un metodo di lavoro che predilige attori non professionisti, Chloé Zhao introduce lo spettatore in un microcosmo di cowboy-indiani che sopravvivono oggi tra disoccupazione e diabete. Nella tradizione di Flaherty, pioniere del documentario, e dentro uno spazio immenso e mitico, realizza un neo-western realista più rigoroso del suo film precedente. Un'opera seconda dove fiction e osservazione, prossimità al territorio e senso della messa in scena si incontrano.

A dispetto dell'immaginario virile associato al western, The Rider ci ricorda dove sono le donne e qual è il loro posto nella storia del cinema. Non in una controstoria parallela alla 'vera' storia ma in quella officiale che resta sempre da rifare perché al suo appello non sono solo le donne a mancare.


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In foto una scena del film The Rider - Il sogno di un cowboy .
In foto una scena del film The Rider - Il sogno di un cowboy .
In foto una scena del film The Rider - Il sogno di un cowboy .

In un paesaggio di erbe secche e di cowboy di serie B che si aggrappano alle redini di un western decrepito, rimpiazzando il glorioso CinemaScope con i video YouTube, Chloé Zhao scruta un orizzonte che non è una semplice linea geografica, soprattutto per gli americani. Concetto evanescente condannato a essere perennemente 'rilanciato', la frontiera è un valore cardinale del pensiero americano, un costrutto mitico che serve a spiegare (e a giustificare) una progressiva (e discutibile) appropriazione territoriale, un passaggio obbligato verso la Terra promessa, una realtà storica che ha posto sfide e domande concrete nel processo di costruzione di uno stato nascente.

La mistica del "destino manifesto" della nazione è stato elevato dal cinema al rango di mito universale. Un genere fiorente, degno dell'epopea greca, gli ha donato la forma, le figure e il contenuto: il western. Passato per tutti gli stati da più di un secolo, compreso quello di sopravvivere alla propria morte e alla revisione critica della leggenda a cui è associato, il western oggi è un genere quasi prosciugato, una mummia risvegliata con più o meno successo e nostalgia.
Niente di comparabile a The Rider (guarda la video recensione) che non è certo una mera rivisitazione. Il film di Chloé Zhao ricorda per certi versi i western filosofici di Monte Hellman, uno dei capitoli più originali e radicali di questo interminabile epilogo. La ragione è semplice: The Rider è tutto salvo che un film terminale. È un'opera che risveglia il sentimento perduto delle origini e nello stesso tempo rinnova la lettura della Storia, sostituendo ai miti positivi del western hollywoodiano (la conquista dell'Ovest, la nuova frontiera, l'avventura) altri miti, prossimi a concetti filosofici (la morte, il vuoto, l'inquietudine, la confusione).

Nell' 'esperienza costituzionale' della Frontiera e nella vertigine delle Badlands, la regista evoca i fantasmi del west(ern) e testimonia le rivendicazioni politiche attuali a cui fanno eco lo sterminio e la spoliazione perpetrata contro i nativi nel XIX secolo. Tra hard rock e canti tradizionali, vodka e crack, tori da cavalcare senza sella o cavalli selvaggi, Chloé Zhao produce qualcosa di grande, l'idea di appartenere a un luogo e a una collettività, dimensione che coincide con il percorso personale dell'autrice. Dalla Cina al Dakota del Sud passando per New York, il viaggio non fa che arricchire un cinema all'alba che ha già cominciato a sorprenderci.

Affiliata al circuito indipendente, Chloé Zhao condivide con Kelly Reichardt (River of Grass, Old Joy, Meek's Cutoff, Certain Women) l'arte dello spazio e dello sguardo, tracciando coi suoi personaggi delle linee di fuga nel grande paesaggio americano. Come lei muove verso le nuove frontiere del cinema, girando ballate intime nell'America dei destini spezzati, come lei è un'artista capace di accogliere lo spettatore senza forzare la sua adesione, accomodandolo al cuore dei rapporti umani che costituiscono in fondo la sua sola materia.

I suoi eroi, pienamente Sioux (Song My Brothers Taught Me) o un quarto Sioux (The Rider) conducono la propria vita sulla scia di una mitologia ridotta in polvere, come ai tempi della Grande Depressione, e sulla memoria devitalizzata dei grandi racconti. Prestare attenzione al respiro segreto dei suoi personaggi e indagare i loro occhi è l'essenza del western di Chloé Zhao. Non il suo riflesso idealizzato ma la sua realtà fisica, incarnata intorno al fuoco di un campo dove il protagonista e i suoi amici elencano le loro ferite. Centro crepitante del film, la scena rivela che il western, quello vero, è in fondo quello di farsi crudamente spaccare il cranio e le costole a colpi di zoccoli. È dopo una caduta di troppo che il protagonista sarà costretto ad abbandonare la sella e a deporre le armi al banco dei pegni. La messa in scena si aggrappa all'instabile presenza degli esseri, a un tessuto sociale fragile che intreccia la memoria dei nativi con la precarietà economica e sanitaria.

The Rider offre uno dei rari esempi di film dove ciascun piano risponde a una profonda necessità, dove ogni colpo risuona di molteplici sensi e disegna progressivamente il ritratto di un cowboy che sa mantenere il cappello in testa comprendendo l'importanza del suo presente. Un ritratto maschile, sul prezzo della vulnerabilità maschile, in un singolare western femminile che ravviva l'immaginario americano con un minimalismo che va all'osso, con l'asprezza della sua bellezza, con la sua maniera di umanizzare la realtà piuttosto che renderla eroica. E ancora, un film capace di prendere in contropiede i canoni del genere, stringendo il quadro sul suo eroe contro l'esaltazione scopica dello spazio, assumendo un punto di vista femminile intimo contro l'appropriazione virile della Storia. Meditazione contro azione, smarrimento contro conquista. Perché perdersi è una delle maniere più evidenti di sperimentare lo spazio. Chloé Zhao realizza un film di cowboy e di indiani e si aggiunge alle grandi voci della scena alternativa americana.


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