Il regista del cult Trainspotting, è al cinema con Steve Jobs, basato sullo script d'acciaio di Aaron Sorkin, fresco di Golden Globe.
di Mauro Gervasini
È una verità storiografica. Se si vuole ragionare su una ipotetica estetica degli anni 90 (del secolo scorso), due film sono preponderanti: Pulp Fiction di Quentin Tarantino (1994) e Trainspotting di Danny Boyle (1996). Un regista statunitense e un inglese di origine irlandese che gira in slang scozzese: mondi divisi dalla stessa lingua. E uniti da una energia visiva controcorrente, più originale e alla distanza "filosofica" quella di Tarantino, più mainstream e d'effetto quella di Boyle, con una idea di montaggio sincopato subito metabolizzata dalla pubblicità (ricordate lo spot della Superga intitolato "The Challenge" diretto da Tarsem nel 1997, con la stessa musica dei Prodigy?). Ma al di là delle riserve, Trainspotting è lì, è storia, una pietra miliare imprescindibile. Oggi il cineasta di Manchester, classe 1956, anche alla luce del biopic Steve Jobs con Michael Fassbender, nelle sale dal 21 gennaio, appare normalizzato. Un autore certamente personale, sempre alla ricerca di modalità espressive che facciano in qualche modo sensazione, ma capace soprattutto di sorprendere per la superficie, la buccia, con poca sostanza se alle prese con progetti particolarmente ambiziosi.
In Steve Jobs, Boyle si mette invece al servizio della sceneggiatura d'acciaio di Aaron Sorkin, fresco di Golden Globe, con una regia più neutra, un po' da biopic
Il suo acclamato The Millionaire (2008) si aggiudica 8 Oscar, tra i quali miglior film e miglior regia, uno dei punti più bassi dell'Academy degli ultimi anni. Storia di un ragazzino povero che trionfa all'edizione indiana di Chi vuol essere milionario?, sembra il bigino di un cinema esotico a uso e consumo del pubblico occidentale più pigro, l'equivalente di un viaggio organizzato attraverso gli stereotipi di Bollywood. Il successo coglie forse impreparato lo stesso Danny Boyle, che aveva decisamente sbagliato un altro film in precedenza (The Beach con Leonardo DiCaprio e Virginie Ledoyen, 2000), e per motivi non troppo diversi. Tenta di rimettersi in gioco con un lavoro invece molto interessante, 127 ore, con James Franco (2010: per inciso, una delle migliori performance dell'attore). Appassionato di trekking e biking, un giovane finisce in un crepaccio di roccia dove resta incastrato. Dopo 5 giorni di deliri (anche) formato selfie, si amputa il braccio con un coltellino e si salva la pelle. Tutto vero. Il film è adrenalinico e ansiogeno: un action sugli sport estremi giocato sul paradosso di un protagonista completamente immobile.