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Lo chiamavano Jeeg Robot, ogni supereroe ha il suo supercattivo: Santamaria Vs Marinelli

Due caratteri che riverberano di mille echi di celluloide e di genere in un film che è una ventata di novità per il cinema italiano. Lo chiamavano Jeeg Robot, un film di Gabriele Mainetti. Dal 25 febbraio al cinema.
di Marianna Cappi

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martedì 23 febbraio 2016 - Jeeg Robot

Jeeg non si nasce, Jeeg si diventa. Accade se a trasformarsi è l'alter ego primigenio, quell'Enzo Ceccotti da Tor Bella Monaca che non aveva un amico, non aveva un amore, non aveva una sola speranza di sopravvivere ad un volo da dieci piani d'altezza. E invece.

Da quel bagno nel Tevere, tra i barili di rifiuti tossici, "Enzè" è mutato nel fisico, ma è la trasformazione morale, che arriva solo alla fine, che ne fa un super eroe: indossare la maschera, allora, è un gesto puramente simbolico, un rito di passaggio.
Marianna Cappi

Gabriele Mainetti e i suoi sceneggiatori, Nicola Guaglianone e Roberto Menotti, hanno incrociato la memoria dei cartoni animati giapponesi dell'infanzia con la realtà periferica della Roma di oggi, esasperata nei suoi tratti violenti e grotteschi come da filosofia del fumetto. L'avevano già fatto con il cortometraggio Tiger Boy (testo di Guaglianone, "disegni" di Mainetti), storia di un bambino disagiato che vive nel mito del "Tigre", un wrestler romano del Corviale.

"Hiroshi" Ceccotti non nasce, dunque, eroe, nemmeno per caso. Solo in seguito al dolore più grande della sua vita si rende conto di possedere improvvisamente uno scopo. Lo aiuta in questo percorso "lo Zingaro", insanguinando il terreno da bonificare. Perché ogni supereroe ha il suo supercattivo, ed è qui che Lo chiamavano Jeeg Robot dà il suo meglio: nella creazione di due caratteri che riverberano di mille echi di celluloide e di genere, eppure sono una ventata di novità per certo cinema italiano, quasi due creature mitiche, sepolte da un'attesa durata troppo a lungo e finalmente liberate dai dubbi delle grandi produzioni, dai rischi di facili scimmiettature, e portate alla luce da due attori che meritavano esattamente un'occasione come questa.


Luca Marinelli in una scena del film Lo chiamavano Jeeg Robot.
Claudio Santamaria in una scena del film Lo chiamavano Jeeg Robot.
Luca Marinelli in una scena del film Lo chiamavano Jeeg Robot.

Sopra le righe Luca Marinelli, apparentemente incontenibile e in realtà perfettamente controllato nella performance isterica e istrionica, letteralmente spaventosa, colorata dalla banda di scagnozzi che non può mancare al villain di turno; solitario, zitto, bolso, guardingo, e tenerone al dunque, Santamaria. E ancora: scoppiettante come un petardo il primo, di cui assistiamo alla parabola a suo modo gloriosa e rapidissima, dall'ascesa efferata all'interno del clan, al sacrificio del "fratello", alla rinascita dagli inferi con mezzi e propositi megalomani (oggi sinonimo di virali); a suo modo tardo il secondo, sconvolto dall'arrivo dell'amore quasi più che dal superpotere e umanamente torturato e schiacciato dal destino prima di arrivare a trovare il proprio perché.

Marinelli mirava altissimo e s'inabisserà. Mirava al Joker di Batman, di cui condivide l'ansia di uscire dall'anonimato, il narcisismo sfrenato, la dimensione del travestimento (qui sarebbe quasi più corretto dire del travestitismo), il mito del divertimento a tutti i costi.

Come Joker con Batman, lo Zingaro di Marinelli sente che il super forzuto lo completa, che sono fatti l'uno per l'altro, per fare squadra. Prima che per sconfiggerlo, lo vorrebbe per sé, per completarsi.
Marianna Cappi

Il borgataro d'acciacio di Santamaria, invece, non si lamentava del suo buco -un divano, un budino, qualche film porno-, a patto di essere lasciato marcire da solo, ma arriverà ad alzarsi al di sopra del bene e del male, a guardare la sua città dall'alto dei tetti e della sua nuova, e ancora per lo più misteriosa, identità. Non solo non vive per i "like" della rete, ma nemmeno si avvede dei telefonini che ne riprendono le gesta, sbandierando al mondo i suoi dati anagrafici. Non conosce l'ambizione, non cerca il circo degli ammiratori, non si trucca e non si agghinda, di più: non si cambia proprio, e quando indossa la maschera lo fa perché è un oggetto caricato d'affetto, un pegno d'amore e di fiducia, non un gingillo intercambiabile.

Per entrambi, il gatto e il topo, il ruolo ha richiesto un lavoro serissimo sul corpo, sulla voce, sullo sguardo. Una trasformazione, per l'appunto, perché lì sta il punto d'incontro tra il mestiere dell'attore e quello del supereroe, buono o malvagio che sia. Nella distanza tra questi due caratteri, ma anche e soprattutto nei loro punti di tangenza, nella loro comune provenienza sociale e prossimità geografica, sta la forza del legame che s'instaura sul schermo e aggancia irrimediabilmente lo spettatore. Santamaria e Luca Marinelli, attori romani, vicini per generazione, partiti entrambi dal teatro per approdare a percorsi differenti al cinema, offrono qui due interpretazioni tra le migliori delle loro rispettive carriere, e saltano a piedi pari lo scoglio infido del confronto, costruendo due personaggi agli antipodi, per aspirazione e per stile.


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