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Il cinema come sport minore

Metafore di lotta in Foxcatcher.
di Roy Menarini

In foto una scena del film.

domenica 15 marzo 2015 - Approfondimenti

Sport minori. Sono derisi dalla maggioranza, quella calciofila in Italia e quella che segue basket e football negli Stati Uniti. Sono apprezzati solamente durante le Olimpiadi, si reggono su finanziamenti statali minimi e rischiano l'irrilevanza quando vengono trasmessi in televisione. Non sarà un caso che, per esempio in Italia, tocca alle reti digitali del servizio pubblico ospitarne in diretta i campionati e gli eventi principali.
Tutt'altra questione quando si parla di cinema. Gli sport minori attraggono il pubblico, e soprattutto suscitano l'interesse dello spettatore, quello stesso che non si sognerebbe mai di seguirli regolarmente.
In Foxcatcher si tratta di lotta, anche se durante il film vi sono ambiguità terminologiche nei confronti del wrestling (la finta lotta, spettacolarizzata e fumettistica, cara a bambini e adolescenti). Del resto, l'ambiguità è il tema fondamentale del film di Bennett Miller, il cui difetto principale risiede nello scambiare la reticenza (davvero eccessiva) con il chiaroscuro dei rapporti umani.
E dire che la lotta è tutto tranne che ambigua. Infatti gli atleti - interpretati da attori un po' fuori età e truccati particolarmente male, ma è un dettaglio - che la praticano si muovono come scimpanzé, camminano oscillando le braccia come gibboni, hanno troppi muscoli sulle spalle e nelle gambe per poter deambulare come esseri umani normali. Pur laureato, il protagonista della storia non riesce nemmeno a leggere un paio di termini più complicati della lista della spesa, e fa fatica a vederci chiaro nel rapporto col suo finanziatore, padrino, mentore e plagiario. A un certo punto, sembra quasi che il film ripercorra la vicenda di Dietro i candelabri: anche il giovane pupillo di Liberace cambiava aspetto e veniva modificato nel profondo vivendo nel castello del suo benefattore e amico, ben presto più simile a una prigione che a una reggia. E poi c'è anche il ricordo di Viale del tramonto: come Billy Wilder, ma ovviamente senza il medesimo talento, Miller narra di un uomo separato dalla realtà, che vive del mito del passato, in tutto e per tutto protetto dai suoi servitori, che pagano figuranti e altri sottoposti per convincerlo del suo talento e della sua grandezza. Sul finale, che non narriamo, si può poi ovviamente discutere quanto a similitudini o differenze. Lo sport minore è dunque deposito di storie mitiche e di vicende miserande, come quella in oggetto. Il filone - che scorre accanto a quello degli sport inventati (Rollerball, Baseketball, Palle al balzo, ecc.) - serve a produrre metafore. "Una storia americana", recita il sottotitolo italiano. Vero, ma anche una sceneggiatura universale. E in effetti è dalle scuole di sceneggiatura che proviene la dimensione un po' più scolastica del film: la lotta come metafora dei rapporti umani, le prese e i contatti come codici resi incomprensibili dall'appartenenza di classe, la separazione dal mondo resa esplicita dallo sport dove più ci si tocca e ci si abbraccia in assoluto. Per non parlare delle allusioni omoerotiche che, forse per non rischiare polemiche nella rappresentazione del folle DuPont, vengono attutite.
Tornando al tema, bella sfida per la critica (sport minore anch'essa, a modo suo): quand'è che un film è ambiguo e controverso, e quando invece solo reticente e indeciso?

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