Theodore è un mite e sensibile quarantenne (un amico gli dirà egli possedere una interiorità al femminile) che si guadagna da vivere in un’azienda, di Los Angeles, definibile di “divulgazione di emozioni”: infatti egli ascolta, riceve, fa proprie le emozioni di persone anonime e, su queste basi, scrive dei componimenti, resoconti verbali, lettere che saranno reindirizzate ai destinatari dei medesimi pensieri a nome dei corrispondenti mittenti; pertanto Theodore si presenta come una sorta di ghost writer dell’anima del terzo millennio, operante all’interno di un’azienda di servizi la cui mission consiste nel rielaborare, mettendolo in bella forma, il vissuto dell’umanità USA più dispersa e parcellizzata.
Ciò nonostante, Theodore vive un’esistenza vuota e solitaria: separato dalla moglie, con cui è cresciuto e ha condiviso sostanzialmente tutte le esperienze importanti delle loro vite, prossimo al divorzio, è padre di una dolce bambina che, tuttavia, vede saltuariamente; in definitiva egli vive la propria affettività in sporadiche e spesso frustranti avventure, sempre in bilico tra il reale e il virtuale.
Una chance di cambiamento gli viene offerta, in modo sorprendente e inaspettato anche per lo spettatore, dalla pubblicità di un software di intelligenza artificiale, sistema operativo o OS, installabile sul proprio PC casalingo e attivabile su terminali telefonici, mobile, hi-phone e similari handset. In tal modo sarà configurata e prenderà coscienza una vera e propria amena mente virtuale, compagna del protagonista, una “Lei” presenza pressoché costante nel quotidiano di Theodore. Essa naturalmente, come tutte le simulazioni o realtà simil-cerebrali (ma senza risvegliare in alcun modo mostri dell’id da terzo millennio), sarà in grado di evolvere accumulando esperienze, affetti e quant’altro, fino a giungere a una sorta di vera e propria vita mentale diffusa e interrelata con la “vera” umanità, sulla scia dei paradigmi del più attuale internetworking postmoderno.
Ovviamente, parallelamente, prende piede anche l’evoluzione, pur dolorosa e tormentata, di Theodore che lo condurrà a rivedere tutti i suoi rapporti affettivi, passati, presenti e futuri.
Tale soggetto, specie di redivivo bildungsroman della maturità, sviluppato in una struggente pur sempre agrodolce e suadente sceneggiatura equipaggiata da una bella fotografia, caratterizzato da un convincente e sempre misurato Joaquin Phoenix, evoca da subito più o meno noti echi cinematografici: dal celeberrimo Hal 9000 di Arthur Clarke e Stanley Kubrick alla certamente meno famosa, e sicuramente più goffa e maldestra, Caterina di Alberto Sordi; nondimeno rimanda a quello che, probabilmente, è il personaggio più maturo e accattivante della cinematografia di Nanni Moretti: il Michele di Bianca, quello tanto perfetto da rinunciare all’amore ma che conservava gli schedari affettivi dei propri amici e conoscenti, nonché che si recava alla stazione a scrutare i saluti e gli addii dell’umanità più anonima e pertanto più vera e per lui ammirevole, film i cui significati rimangono sempre in bilico misterioso tra l’esplicito e l’implicito, tra il detto e il non detto, l’iniziato e l’interrotto.
Qui, in “Lei”, i significati si esprimono e si consumano in modo abbastanza aperto, come del resto il magnifico finale con il recupero di un rapporto reale, effettivamente open, e foriero di ulteriori incipienti cambiamenti. Ma ciò che rimane allo spettatore, di questo elegiaco racconto filmico, è proprio la cangiante potenzialità insita nella mente, artificiale che sia nella sua affettività come nella sua intelligenza, la quale, come forma pensante e senziente pur mediata dalle regole software ispirate all’umana natura, apre a sua volta a prospettive suggestive, certamente antitetiche a tanta nostra quotidianità: se infatti nel corso di quest’ultima siamo, pressoché continuamente, colpiti da corpi viventi, masse protoplasmatiche o neuro-muscolari di materia vivente in cui, spesso, pare non scorgersi traccia alcuna di ciò che può chiamarsi mente, perché ci si dovrebbe scandalizzare di una mente priva di un corpo, priva di materia biologica, che, come viene ripetuto dalla bimba figlia del protagonista, “abita in un computer” ma che dalla natura umana è stata concepita?
Unico plausibile neo indicabile, del soggetto e della sceneggiatura del film, è l’essere sostanzialmente un “film per ricchi”, privo di qualsiasi riferimento al sociale, nel senso che descrive una Los Angeles di gente notevolmente agiata, senza problemi economici, dove non compare un qualche povero o diseredato e i cui unici problemi, delle persone, paiono esser quelli dell’anima e della mente; ma ciò, si potrebbe obiettare, non era, semmai, il problema anche della Vienna di Sigmund Freud, quando il Maestro voleva dare una plausibile descrizione dell’apparato psichico? La speranza, pertanto, è che la “mente di Lei” illumini anche coloro che governano i destini dell’umanità tutta!
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