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Alice Rohrwacher, sorella d'arte

Reduce da Cannes con Corpo Celeste, la regista toscana si racconta.
di Ilaria Ravarino

Una foto di scena del film Corpo Celeste di Alice Rohrwacher.
Yile Yara Vianello . Interpreta Marta nel film di Alice Rohrwacher Corpo Celeste.

lunedì 23 maggio 2011 - Incontri

A Cannes non ha vinto niente ma il suo film, Corpo Celeste, è già stato venduto in Francia e il 27 maggio arriverà in sala in Italia. Lei, Alice Rohrwacher, 29 anni e una figlia di 4 anni e mezzo, è felice così: a Cannes non era mai stata, a differenza della sorella attrice Alba, e il suo esordio l’ha tenuto a battesimo proprio la sua sezione preferita, la Quinzaine, che lei seguiva da lontano ogni anno senza nemmeno immaginare che un giorno sarebbe stata chiamata in concorso. Da poco trasferitasi a Berlino, «una città culturalmente viva, e per fortuna piena di asili nido», dopo un periodo passato prima a Torino e poi nella campagna piemontese, Alice è più estroversa della sorella, parla volentieri anche di sé, ma a dispetto del look vagamente rock’n roll ha la stessa dolcezza nella voce, gli stessi occhi che le brillano di gioia quando racconta l’avventura del suo primo film.

Come è arrivata al cinema? È stato un primo amore o una scoperta tardiva?
Mi sono laureata in lettere e poi ho seguito una scuola di documentario a Lisbona. Ma il cinema non è stato il primo amore né per me né per mia sorella, perché in famiglia non abbiamo avuto un’educazione cinematografica. Il cinema l’ho scoperto tardi, infatti i miei riferimenti culturali sono prima di tutto letterari e pittorici.

Avrà trovato anche qualche riferimento cinematografico…
Sì, certo: amo il vecchio cinema italiano, soprattutto Rossellini. E tra i documentaristi Leonardo Di Costanzo, che con i suoi film mi ha fatto venir voglia di lasciare Lisbona e tornare in Italia.

Dal documentario al film di finzione: un passaggio traumatico?
No, anzi, a me non sembra neanche un passaggio evolutivo. Per me film di finzione e documentari sono come fratelli. Il lavoro "di finzione" l’ho imparato mentre lo facevo: avevo fatto documentari, ero stata assistente in teatro, avevo provato a fare la musicista con la mia fisarmonica, ma un vero film non l’avevo mai nemmeno pensato.

Come è nata allora l’idea di girare Corpo Celeste?
Ho conosciuto Carlo Cresto Dina, il produttore del film, che ha visto i miei lavori e mi ha consigliato di cominciare a scrivere qualcosa, così, senza partire da una trama precisa. Mi ha chiesto di riflettere su un argomento tra i tanti che parlasse dell’Italia contemporanea: la politica, la sanità, la scuola o la Chiesa. Una volta trovato l’argomento, siamo andati avanti per cerchi concentrici, finché non è "arrivata" la storia.

Anche Moretti è stato a Cannes con un film sulla Chiesa. Lei perché ha scelto questo argomento?
È stata una bella coincidenza, vero? Sarà che forse in questo periodo si sente il bisogno di parlare di altro che non sia il solito Berlusconi... E comunque il mio non è un film sulla religione o sulla Chiesa. È un film che non dà risposte, piuttosto cerca domande.

Nel film accenna anche alla collusione tra Chiesa e politica: un attacco al Vaticano?
Ho visto alcuni parroci fare intensa campagna elettorale per questo o quel candidato, e l’ho voluto raccontare. Non intendo così attaccare il Vaticano, se poi la Chiesa se la prenderà, pazienza: non posso difendere il mio film da tutto e tutti. Per me questa cattiva abitudine è ben rappresentativa della confusione che regna in Italia, dove tutto è mescolato: politica, religione, famiglia...

In Corpo Celeste la Chiesa non fa bella figura. Nell’immagine finale del film il crocifisso della parrocchia è addirittura staccato dal muro…
Non c’è niente di provocatorio in quell’immagine, che a me anzi comunica una grande dolcezza. Idealmente la regalo alla Chiesa, come augurio: in fondo rappresenta una comunità finalmente unita, anche se si tratta di una comunità cui io non appartengo.

È mai stata cattolica?
No, sono laica e non sono battezzata. Ma sia io che mia sorella abbiamo ricevuto dalla nostra famiglia un’educazione molto spirituale.

C’è qualcosa di autobiografico nel film?
No, niente. L’unica cosa che mi accomuna alla protagonista è il suo sguardo estraneo alla comunità in cui si trova. Avevo bisogno di un personaggio che non appartenesse alla cultura del paesino, che potesse osservarlo da un altro punto di vista. Senza di lei non avrei potuto fare il film: non mi sarei sentita in diritto di raccontare cose che non ho vissuto, che non mi appartengono.

Perché ha dato alla sua protagonista origini svizzere?
Perché la Svizzera è il paese neutro per eccellenza, un posto che sa di altrove. E poi oggi da quel paese c’è una grande immigrazione di ritorno.

Perché ha scelto di girare in Calabria?
Conoscevo Reggio Calabria perché avevo girato là un documentario, e mi aveva colpito quel senso di solitudine e abbandono. Il sud però è anche altro da questo, e spero che nel mio film si avverta anche la poesia di certi luoghi e delle persone. Là è tutto fresco. Anche il cemento.

Come ha scelto l’attrice protagonista del film?
L’ho cercata a lungo, volevo una ragazza che non avesse idea del suo futuro, che fosse in una condizione paragonabile a quella del personaggio. Alla fine l’ho trovata in una piccola comune sui monti tosco emiliani, ha 13 anni e prima di girare il mio film non era mai stata in una vera città.

Quali sono i suoi prossimi progetti?
Vorrei scrivere un altro film di finzione e accompagnarlo con un documentario sullo stesso tema. Non ho ancora le idee chiare: sarà un film che riguarda il paesaggio italiano, cioè questo ambiente bellissimo e devastato, e il modo con il quale viene comunicato, venduto all’estero, raccontato. Diciamo che sarà un film sulla storia del paesaggio agricolo italiano.

Un film con sua sorella lo farebbe?
Magari. Mi piacerebbe moltissimo.

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