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Jack Black nella terra di Lilliputh

Un personaggio che intercetta i gusti e le aspirazioni del pubblico medio moderno.
di Gabriele Niola

Jack Black alla conferenza stampa di presentazione del film I fantastici viaggi di Gulliver.
Jack Black (Thomas Black) (54 anni) 28 agosto 1969, Hermosa Beach (California - USA) - Vergine. Interpreta Lemuel Gulliver nel film di Rob Letterman I fantastici viaggi di Gulliver.

martedì 1 febbraio 2011 - Making Of


Una parodia mascherata
La cosa più difficile in un film per ragazzi è essere moderni. Essere moderni nel senso di centrare lo spirito di un’epoca, i suoi stereotipi e declinare nella maniera migliore le eterne tematiche che fanno da base ai soliti intrecci. I fantastici viaggi di Gulliver ci riesce per 3 motivi principali.
Una sequenza d’apertura con i titoli di testa messi su immagini di New York elaborate per farla sembrare una città in miniatura (un trucco nato e diffusosi su internet), una storia dallo spunto che da poco è tornato estremamente attuale (un incidente di viaggio che porta su un’isola misteriosa, piena di cose strane, su cui si è qualcun altro e da cui non si riesce ad andare via, sembra la trama di una serie tv) e un fascino, quello del “nuovo mondo da esplorare” che il 3D ha cavalcato fin dal film cardine della sua rinascita: Avatar.
Nel nuovo mondo però non ci va un militare, ci va Jack Black, attore/personaggio, in grado di contaminare i film e i personaggi con il proprio carattere. Jack Black è Jack Black qualunque cosa faccia. Modello maschile postadolescenziale (“post” proprio di poco) tipico degli anni duemila, cioè di quegli anni in cui gli eroi sono più deboli dei loro nemici e i nerd mostrano di non aver bisogno di rivincite.
Così, ponendo Jack Black in una storia passata con successo sia al cinema che alla televisione e lasciando che il suo personaggio ne faccia quel che crede, il regista Rob Letterman e lo sceneggiatore Nicholas Stoller (non a caso proveniente della scuderia del vate degli adulti infantili: Judd Apatow) danno vita ad una parodia mascherata da film d’avventura. Del romanzo di Jonathan Swift infatti rimane proprio poco, e questo lo si poteva immaginare da subito, c’è quel che basta per usarne il titolo (cioè il mondo di Lilliputh).
Con il suo 3D usato per percepire un nuovo mondo (in cui le distanze e le grandezze non sono quelle del nostro) e il suo riproporre il mito del luogo di frontiera solitario e misterioso, in cui tutto è possibile (soprattutto rinascere come persona nuova), I fantastici viaggi di Gulliver è una parodia di molte cose diverse, sotto mentite spoglie, ottima per una generazione che di parodie esplicite e dichiarate ne ha fin sopra i capelli.

Jack Black, l’attore postmoderno
Inizialmente Jack Black non era una cosa per bambini. In Alta fedeltà, il film che l’ha rivelato come talento devastante (nel senso proprio di “talento del devasto”), era una macchina da sogni erotici e violenza inespressa, un rompiscatole dall’interiorità complessa. Con il tempo e con il procedere delle pellicole però la sua maschera si è cristallizzata, nel declinarsi attraverso diversi filoni (oltre al comico, il sentimentale, il drammatico e l’avventuriero) è diventato sempre meno persona e sempre più personaggio.
Jack Black è come acqua, si cala nel film e ne prende la forma senza mai mutare la propria sostanza. A differenza degli altri attori che o sono malleabili e interpretano il ruolo che devono, o sono caratteristi e vengono usati per fare ogni volta la medesima parte, lui porta sempre il medesimo personaggio in diversi contesti.
Tutti vogliono Jack Black, e lo vogliono com’è, perchè il suo personaggio (e non la sua recitazione) intercetta i gusti e le aspirazioni del pubblico medio moderno e in I fantastici viaggi di Gulliver è responsabile di almeno metà del successo dell’operazione di adeguamento ai tempi del film. Non si tratta solo degli onnipresenti riferimenti a film, musica e prodotti pop, non è solo attaccandosi a qualcosa di esistente che Black è in linea con il tempo che vive, ma rielaborandoli. Jack Black è l’attore postmoderno che ha interiorizzato la cultura di massa e la usa per produrre altro senso. Usa spontaneamente riferimenti, simboli, stilemi, espressioni, parole e canzoni per fare dell’altro, generare un senso nuovo. Anche in un film per ragazzi.

Il segreto dell’eterno successo di Lilliputh
Quasi nessun adattamento di "I viaggi di Gulliver" va oltre la prima parte. Allo stesso modo in cui de "La divina commedia" a scuola non viene letto altro che i primi capitoli di ogni cantica, così anche del romanzo di Swift si conosce unicamente la parte relativa a Lilliputh e di striscio qualche volta si intravede quella del mondo dei giganti. Gli altri viaggi, meno fascinosi ma più critici e complessi, rimangono così sostanzialmente sconosciuti, esplorati solo da noiose miniserie televisive.
L’ignavia c'entra poco, il motivo risiede più che altro nel fatto che il tema del grande contro il piccolo, dell’uomo unico e potenzialmente salvatore in una Terra completamente diversa dalla nostra e in un certo senso da conquistare (non per forza militarmente, anche solo sentimentalmente) sono temi ottimi per il cinema. O meglio per il cinema americano.
Una filmografia che da sempre si nutre di spazi e fa della terra vergine uno dei suoi miti fondanti non può poi non ritrovarsi affascinata dalle potenzialità visive del racconto di un uomo che scopre un nuovo mondo, da esplorare come nessuno prima di lui ha fatto e nel quale gode dei poteri di un Dio.
Sebbene non direttamente correlato a temi cristologici, "I viaggi di Gulliver" nella sua prima parte presta il fianco splendidamente alla lettura che da sempre ne fa il cinema americano: ampi spazi, ampie vedute, cieli, mari, terre e verde. Il cinema di spazi e di invidualismo per eccellenza sguazza nel racconto di Lilliputh oggi come ieri perchè questo contiene la sua dialettica fondamentale, quella tra paesaggi e uomini, e di converso arranca nelle altre parti del romanzo. L’uomo che ritrova se stesso a contatto con un altro paesaggio, nuovo e non contaminato da quelli della sua specie è la medesima idea alla base di Balla coi lupi e di molta cinematografia western revisionista e non, è il mito del buon selvaggio, è Avatar, è la seconda occasione che incontra le origini della cultura americana. Una storia così perfetta che pur venendo da uno scrittore anglo-irlandese la cultura moderna statunitense non poteva non farla propria.

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