Henri Jeanson, che è ora sulla cinquantina, è venuto al cinema, dal teatro e dal giornalismo, un po’ meno di venti anni orsono. Lavorò subito a tre film importanti: Carnet de bal di Duvivier. Entrée des artistes di Marc Allégret, Hotel du Nord di Carné. Soltanto due anni fa, dopo aver collaborato a una quantità di pellicole come soggettista, sceneggiatore, scrittore dei dialoghi, Jeanson ha deciso di lasciare la macchina da scrivere per la macchina da presa, e ne è nato Lady Paname (in italiano Scandalo alla ribalta).
Dei molti «screenwriters» che hanno dato il meglio di sé al cinema, Ben Hecht e Riskin, Sturges e Prévert, Zavattini e Spaak, per non nominare che i più noti, Jeanson è quello che ha una concezione della vita più ricca, un «pathos» più originale, una più grande complessità di interessi. È persin troppo facile definirlo un anarchico sentimentale. Mentre si tratta di tutt’altra faccenda. Viene, come ceto, dalla borghesia parigina e, come «apprentissage», dal giornalismo. Sono state le sue polemiche di giornalista, la sua assidua e tumultuosa collaborazione al «Canard Enchainé» (un settimanale umoristico assai importante, che aveva qualche somiglianza col nostro «Bertoldo» d’anteguerra, al tempo di Mosca e Guareschi, di Marotta e Steinberg e Manzoni, ma con la libertà di stampa in più...) e al «Crapouillot», a creargli quella fama di «enfant terrible» che non lo ha più abbandonato. Pacifista, libertario, libellista nel senso buono: spietato con i generali, le dive invecchiate, gli accademici presuntuosi, i capitalisti delle «duecento famiglie», Jeanson finì alcune volte davanti al giudice e, per alcuni mesi, durante la «drôle de guerre», in prigione.
Però non si tratta di un anarchico, definizione nei riguardi di Jeanson lacunosa e sommaria. È curioso ma per questo autore così parigino, e per certi lati addirittura «boulevardier», chi può soccorrerci a capirlo è l’austero autore degli «Eléments d’une doctrine radicale», il filosofo Alain.
Jeanson è infatti un tipico figlio dell’89, un radicale appunto: nemico di tutti i poteri, da quello ecclesiastico a quello feudale, dei militari e delle «puissances d’argent». I suoi limiti sono, a sinistra, i comunisti, e a destra i piccoli proprietari terrieri e i piccoli industriali ancora vicini all’attività artigianale. Egli è dell’idea di Clémenceau, che diceva che le guerre son faccende troppo importanti per affidarle ai generali, e, nello stesso tempo,. appartiene a quella famiglia di spiriti che negò al «Tigre», che pur aveva dato la vittoria alla Francia, l’accesso all’Eliseo una volta venuta la pace. Non solo: ma per nulla «cocardier», Jeanson detesta il colonialismo che contraddice al messaggio spirituale e universalistico della Francia, e ricorda benissimo che fu il mefistofelico Bismark a spingere la Terza Repubblica sulla perigliosa via delle spedizioni oltremare.
Come poi, con un simile temperamento, Jeanson sia diventato famoso come giornalista e come cinematografaro, questo va a lode della tollerante e civilissima classe dirigente francese. Restando nel campo del cinema (per ciò che ri-guarda la letteratura, tutti sanno che in Francia essa gode di una libertà sconfinata) in nessun altro paese sarebbero stati possibili film come Le diable au corps, La ronde (tuttora proibiti in Italia), Le journal d’un curé de campagne, Jeux intérdits.
Acuto, dialettico, psicologo di buona tradizione, Jeanson è come il sale che serve a dar forza alle vivande scipite. I produttori lo sanno benissimo e lo chiamano incessantemente, sicuri che un dialogo di Jeanson vivifica i copioni più anemici.
Le battute di Jeanson sono innumerevoli, e qualcuna già classica. Fu lui a definire Edmond Sée «Le Porto-pauvre» e a scrivere nel marzo 1939: «E quanto alla Tunisia e al Canale di Suez nulla da fare. Noi non ci batteremo. Rivolgetevi al Consiglio di amministrazione».
Al cinema Jeanson è venuto per caso. Era un autore teatrale a successo e il «parlato» naturalmente ricorse a lui, che non si fece troppo pregare. Da Pépé le Moko a La vie en rose il cinema non ha avuto a pentirsene: Jeanson ha trovato d’altra parte nel film quella dimensione fantastica, quella libertà che il teatro, con le sue regole rigide, non può dare. È curioso tuttavia che se come autore egli ha dato libere ali a un mondo romantico che esaltava i fuorilegge, le donnette di «petite vertu», e i piccoli intellettuali teneri e falliti (La vie en rose), egli sia poi ricorso come regista ai temi tradizionali, al mondo breve e chiuso del teatro di varietà, agli originali di Montmartre. Forse Jeanson, al suo primo esperimento filmico, così importante e decisivo per ogni autore di cinema, ha voluto: camminare sul sicuro, non rischiando nulla sul piano della fantasia, servendosi di un tema lavorato a regola d’arte come un campo dell’Ile ,de France, per risolvere senza inciampi i problemi di mestiere.
Lady Paname è così un film graziosissimo, piacevole, spiritoso ed allegro, curato da uno «chef» dalle mani e dal palato sicuri: dice molto sul piano del gusto, ma poco in quello della fantasia. È del René Clair aggiornato, meno secco ma anche meno originale. La vicenda cade a Parigi, negli anni, ormai favolosi, della conquista americana quando Gertrude Stein, Scott Fitzgerald, Hemingway, Mac Almon scoprirono la poesia della Francia «aux anciens parapets».
C’è un aspetto del patriottismo che generalmente è l’ultimo a morire, come lo dimostrano i nostri emigranti che non sanno più l’italiano ma hanno imposto gli spaghetti al mondo anglosassone: in volontario esilio per spregio al Babbitt USA, Hemingway, Fitzgerald e compagnia non sapevano rinunziare all’amatissimo whisky: e così frequentavano bar cosmopolici e, per merito del dollaro che al solito faceva premio sul franco, gli alberghi e le strade eleganti. Lady Paname si svolge invece nel quartiere degli artisti di allora, a Montmartre: par sempre di intravedere, a lato di Jouvet, le patetiche ombre degli «assetati». Modigliani, Pascin, Utrillo. Mentre per lé «fonti» soccorrono i nomi, poi diventati famosi, degli scrittori, dei poeti che di quegli anni ci hanno tramandato la memoria più vivida, Francis Carco, Pierre Mac Orlan, Roland Dorgelès.
Tutto falso, Lady Paname raggiunge una sua unità, perché la cartapesta è riscattata dalla freschezza dell’intuizione poetica: e perché i bravi interpreti, la piccante Suzy Delair, e il caro Jouvet, nella parte di un uomo intelligente, pittoresco, fallito perché gli è mancata la grazia, sono entrati a fondo nell’«idea,» di Jeanson. Suzy Delair soprattutto, perfetta ogni volta (Quai des Orfèvres di Clouzot) che deve incarnare la parigina sentimentale e spregiudicata, sensuale e naturalmente elegante, promossa da una portineria alle tavole del varietà. Uno dei meriti del cinema consiste nel restituirci, con carattere di vitalità e di mistero, il passato più labile; Henri Jeanson, fedele alla memoria degli anni giovani,, l’ha perfettamente capito. In questa direzione Lady Paname è un acquisto importante e si pone con naturalezza nella «recherche» del René Clair più notturno e discusso.
Naturalmente fa una certa impressione vedere Louis Jouvet per l’ultima volta. L’intelligente comico disegna una figura un po’ in margine: un dolcissimo anarchico, pieno di comprensione, navigato, sempre pronto a render piaceri al prossimo. Vestito in modo alquanto eccentrico, provvisto di una barbetta, Jouvet è il «deus ex machina» di tutta la storia. È un Jeanson allo stato potenziale: un filosofo da caffè, un Socrate delle «coulisses», un nemico del costume borghese che si limita a vivere- come meglio gli garba in un mondo che gli sembra nello stesso tempo incongruo e insipiente.
Tipici di Henri Jeanson in questo film, sono poi i dialoghi acuti, precisi, brillanti quanto la caratterizzazione, perfetta, del teatro di varietà; ma soprattutto, dentro il film, i «mauvais garçons» che vengono ridotti in polpette dagli «atleti» del music-hall, e tutta la svariante, mossa, appena accennata, popolazione femminile. Il «grande affare»della Francia, almeno secondo una retorica unanimemente accettata, son le faccende d’amore. Henri Jeanson, che fa uccidere Gabin, in Pépé le Moko, per amore di Mireille Balin, l’altro suicidio di Entrée des artistes; il delitto della sposina offesa ne La verité sur Bébé Donge; suggeriscono l’immagine di un Jeanson corposo e sanguigno, attento ai suggerimenti della cronaca nera. È perlomeno curioso che Jeanson abbia evitato come regista i temi che appaiono più suoi come sceneggiatore. È chiaro che l’antico collaboratore del «Canard» (che perse, dicono, dopo la sua uscita dal giornale, metà dei suoi lettori...) non ha ancora finito di stupirci.