Victor Sjöström è un attore svedese, regista, produttore, è nato il 20 settembre 1879 a Silbodal (Svezia) ed è morto il 3 gennaio 1960 all'età di 80 anni a Stoccolma (Svezia).
Attore e regista svedese. È il vecchio caposcuola, il grande pioniere del cinema scandinavo cui Bergman affidò nel 1957 il ruolo di protagonista, quello del professore che fa l'esame di coscienza del proprio passato, nel film Il posto delle fragole. Sjòstròm aveva già sulle spalle sessant'anni di attività teatrale, una cinquantina di film come regista dal 1912 al '36 in Svezia, Stati Uniti e Gran Bretagna, e la direzione artistica dell'industria cinematografica svedese nei suoi due periodi d'oro: dal 1916 al '22, con l'amico e collega Mauritz Stiller; e dal 1943 in avanti, quando la stella di Ingmar Bergman appena compariva all'orizzonte. Nonostante la retrospettiva della scuola scandinava alla Mostra di Venezia del 1964 abbia dimostrato che molti entusiasmi vanno oggi ridimensionati, Sjòstròm rimane un gigante dell'arte cinematografica, soprattutto considerando i tempi nei quali realizzò i primi film. Ingebong Holm, che è uno dei suoi migliori, risale al 1913: in quell'epoca non si trovava nel mondo un simile realismo. Se effettivamente Terje Vigen, tratto nel 1916 da un poema di Ibsen, denuncia oggi parecchia retorica liricoromantica nell'insistito rapporto tra il marinaio e gli elementi della natura, I proscnitti del 1917 mantiene quasi intatta la sua enorme suggestione, specie in tutta la parte finale della fuga dei due amanti, banditi dalla società, sulla neve e tra i monti, in un clima di implacabile fato. È vero che in Sjòstròm - il quale interpretava spesso i propri film e talvolta appariva anche come protagonista delle commedie di Stiller - la fatalità prese sempre più un posto determinante, il che accadde soprattutto nelle sue saghe contadine tratte di peso dai romanzi ciclici di Selma Lageriof, verso i quali egli assumeva, a differenza di Stiller, un atteggiamento di reverente rispetto. «Natura e letteratura nota Franciasco Savio, che curò quella retrospettiva formano ai suoi occhi un vischioso amalgama, che irretisce i personaggi e solennizza le immagini»; però «sul piano della psicologia la sua inventiva è praticamente inesauribile: volti, e-pressioni, atteggiamenti hanno quasi ovunque la freschezza della scoperta». Gli ideali per cui il regista si batteva, a rimorchio della scrittrice, erano già superati nella stessa società svedese dell'epoca: il suo umanitarismo, i suoi modelli di dignità antica, la sua ricerca dell'epico nel quotidiano, e quel suo costante dialogo tra la natura e l'uomo sotto la regìa del destino, erano concetti che l'industrializzazione del pae- se aveva minato alla base. La buonafede dell'artista è fuori discussione: egli neppure s'accorge dei «contenuto profondamente superstizioso delle tradizioni e dei sentimenti della famiglia rurale scandinava» e «si propone di esaltare con verismo stilizzato ma sincero, le semplici virtù e la concreta saggezza del mondo contadino» (Savio). Ma nel Carretto fantasma, che nel 1920 rappresentò la tappa più famosa della sua attività svedese, le contraddizioni esplodevano all'interno dell'opera, oggi notevolmente invecchiata: tra allegoria redentrice, irruzioni macabre, artifici narrativi e naturalismo delle facce e degli interni, il regista-attore aveva fatto un gran miscuglio, cui soltanto la padronanza stilistica riusciva a conferire unità, nascondendo - alla critica di allora - il gretto irrazionalismo della tesi. Emigrato a Hollywood nel 1923 (prima di Stiller, Greta Garbo e Lars Hanson), la probità, il fascino, il rigore del cineasta nordico - colà ribattezzato Seastrorn - conquistarono perfino i capi della Metro, i quali dopo aver richiesto da lui alcune prestazioni commerciali gli lasciarono mano libera per La lettera scarlatta (1926), di cui si ricorda la limpida e armoniosa struttura scenografica, e liberissima per Il vento (1928). Quest'ultimo risultò, in terra straniera, il capolavoro di Sjòstròm, qui poeta d'una natura drammatica e anzi tragica, in rapporto diretto ma anche dialettico con la protagonista, una ragazza bionda, timida e dolce (Liilian Gish) che in quell'atmosfera di solitudine e di brutalità diventa un'assassina. Ma il film non ebbe successo e, dopo un'ulteriore permanenza a Hollywood (diresse anche la Garbo nel mediocre Donna divina) e una successiva parentesi inglese (chiusa con Il manto rosso, 1936), il vecchio pioniere tornò definitivamente in patria, dove continuò sulle scene il suo lavoro d'attore, prima d'assumere la direzione artistica alla Svensk Filmindustri. Naturalmente Sjòstròm era troppo esperto di cinema, per non accorgersi che nel giovane Bergman c'era il nuovo talento. Si apriva il secondo periodo 'mondiale' del cinema svedese, sotto l'alta consulenza dell'antico protagonista del primo; ed è giusto che l'allievo raggiunta la fama, abbia poi chiamato il maestro a prenderne parte, sia pure una volta sola, l'ultima.
Uno dei due padri del cinema svedese (l'altro è Mauritz Stiller). È meticoloso, geniale, pronto ad ogni mestiere. Figlio di un commerciante di legnami, recita e dirige in teatro, recita e dirige nel cinema allora in formazione. Gli si attribuiscono alcuni capolavori che occorrerebbe rivisitare con attenzione, perché in essi risiede il segreto di un linguaggio che, partendo dal populismo e dal moralismo protestante di Selma Lagerlöf, giunge sino a Ingmar Bergman. Dopo Ingeborg Holm (1913), dramma con forti venature patetiche di una donna bersagliata dalla sorte, realizza il poderoso I proscritti (1918), film di notevole ampiezza che segue con rispetto la vicenda umana di due disperati amanti perseguitati da una legge e da una società ingiuste, dal momento del loro incontro in Islanda fino alla tragica morte. Più significativo ancora risulta Il carretto fantasma (1920), magistrale rievocazione della vita contadina nell'Ottocento condotta sulla traccia di un romanzo della Lagerlöf.
Sjöström lavora intensamente, ma non sempre il successo gli arride. Nei primi anni '20 emigra a Hollywood dove si inserisce presto nei ranghi dell'industria, girando film interessanti (il migliore sembra essere Quello che prende gli schiaffi, 1924) e preparando il terreno - ideologico, morale e stilistico - per i due capolavori americani: La lettera rossa (1926), da The Scarlet Letter di N. Hawthorne, e Il vento (1928), che sono due spietati ritratti dell'intolleranza, del fanatismo e della infelicità umana. I film - questi e i precedenti - hanno il passo lento e pesante dei racconti tradizionali, seguono i ritmi di una cultura riflessiva, gonfia di idee e di umori.
Dirigerà ancora, Sjöström, ma soprattutto si metterà a disposizione del cinema svedese durante la seconda guerra mondiale. E, nel dopoguerra, riprenderà con lena il suo antico mestiere di attore, offrendo interpretazioni eccellenti, calibrate al millimetro e incisive senza enfasi. L'ultima è quella di Il posto delle fragole (1957) di Bergman: un vecchio professore stila l'inventario della sua vita, pacatamente (sembra quasi un'autobiografia).
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Se il cinema nordico fosse tutto sopravvissuto nei suoi film più importanti, e questi avessero avuto e avessero una loro diffusione, sarebbe anche oggi facile a molti riconoscere a quel cinema una vera e propria fioritura, tra le più felici nelle autentiche conquiste del film muto. I due nomi che se ne imporrebbero sarebbero quelli di Victor Sjöström e di Mauritz Stiller, entrambi provenienti dal teatro, e appassionatisi, intorno al 1912, del nuovo mezzo espressivo. Anche in Svezia un regista sfornava allora quindici-venti film all'anno; ciascun film pretendeva otto-dieci giorni di lavoro, forniva poi otto-dieci minuti di proiezione. Nasce la Svenska», che durante la prima guerra mondiale si rafforza. Nel 1918 se ne inizia una singolare fortuna, dovuta anche al nome di Seima Lagerlöf; e bel 1919 Stiller compone Il tesoro di Arne, favorevolmente accolto in ogni Paese.
La «Svenska Bio» s'ingrandisce, diventa la «Svenska Filmindustri» (S.F.), che raggruppa tutte le Case editrici svedesi allora esistenti; e le affermazioni si fanno puntuali, con La carretta fantasma di Sjöström, Il pellegrinaggio a Keevlar di Hedquist, Thora von Decken di Brunius, concluse infine da La leggenda di Gästa Berling di Stiller, che doveva rivelare la Garbo. A Stoccolma, specialmente per le strette vie della città vecchia, capita d'incontrare su questa o quella insegna il cognome Gustaffson, un cognome assai comune, come Bergman, come Lindstrom; tanto comune che la signorina Greta Gustaffson sentì presto il bisogno di sostituirlo con un rotondo e morbido Garbo. Per molti la Svezia, cinematograficamente, sarà poi quella maschera; perché Hollywood era sempre stata molto attenta, e quelle grandi affermazioni della piccola cinematografia svedese non potevano sfuggirle. Importò sopratutto i due registi, Stiller e Sjöström; e con Stiller la giovinetta Garbo unicamente per fare cosa gradita al suo mentore e amico, non supponendo che quella lunga pallida ragazza presto avrebbe estasiato di sé i pubblici dei lue emisferi; e con la Garbo importò altri attori, come Lars Hanson ed Einar Hanson.
Quella precisa retata lì per lì lusingo Stoccolma, ma la impoverì. Cercò allora di importare a sua volta nuovi elementi, di tentare altre vie, non esclusa quella del filmone storico; con risultati piuttosto modesti, compensati poi in parte dall'affermarsi di un nuovo regista, Gustav Molander, che era già stato collaboratore di Stiller. Ma la felice stagione è finita. Anche il ritorno in patria di Victor Sjöström, che sembra suscitare nuove speranze, si risolve in una delusione, il regista si è a Hollywood non poco americanizzato, il suo lavoro non appare più schietto, è limitato da formule ovvie, e da tutti gli impensieriti tecnicismi dell'incipiente film sonoro. Il cinema svedese ha compiuto la sua breve parabola. Due nomi ne sopravvivono, e di due maestri. Ebbero il grande merito di rapidamente raggiungere un loro equilibrio, che contemperava risorse spettacolari a umane esigenze, in un ritmo sempre rigoroso, dalla composizione del quadro alla linea della sequenza, e sempre scrutando e rievocando un loro tipico mondo, volti e ambienti di un nord non dimentico di tradizioni, ragioni e succhi europei. Due maestri che firmarono decine di film, fra i quali si ricorderanno Il tesoro di Arne (1919) e La carretta fantasma (1920).
(1954)
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957