La raggruppabilità tematica e stilistica, poetica e ideologica degli autori in famiglie, tendenze, scuole, cooperative, che ci consente di operare un taglio netto tra produzione commerciale e produzione sperimentale, porta, alla fine di ulteriori suddivisioni e ripartizioni, a riconoscere che i conti non tornano perfettamente. Rimane sempre fuori, quasi in uno spazio di nessuno, Carmelo Bene.
Per lui il cinema è uno dei tanti mezzi per esprimersi, per divenire, al tempo stesso, soggetto dell'emissione e soggetto dell'azione, autore e attore: la sua irruzione sulla scena cinematografica ha la stessa aggressività di quella attuata qualche anno prima sulla scena teatrale, anche se non ne ha la stessa scandalosità. Con Bene non assistiamo alla scoperta e all'invenzione del linguaggio cinematografico come con Pasolini. Lui fa proprio il cinema come qualsiasi altro linguaggio e lo adatta al suo corpo d'attore, alla sua phonè, alla sua capacità di scandagliare i luoghi della sua memoria. Lo spazio cinematografico all'inizio traduce ed esegue visivamente una realtà già raccontata e detta in termini letterari e verbali. Bene inizia la sua attività cinematografica senza che siano riconoscibili punti di riferimento anteriori: il linguaggio cinematografico lo affascina per la sua malleabilità e per la sua combinabilità totale di segni sonori, visivi, verbali. Più che col teatro è possibile giungere col cinema a quel dérèglement de tous les sens, a una libertà immaginativa pressoché illimitata. Nella combinatoria aperta di motivi, simboli, immagini, elementi sonori e musicali, agisce comunque entro i limiti di un testo che lui stesso interpreta o racconta, giocando alternativamente sulle possibilità del corpo e soprattutto della voce.
Proprio attraverso la voce Bene «si muove nel testo con la libertà sfrenata e vorace di un bambino improvvisamente sottratto ai divieti e alle interdizioni degli adulti, ci si rivolta dentro, ne fa sprizzare schizzi intorno, se ne imbratta e se ne lorda [...]. La voce di Bene non interpreta solo un testo, è piuttosto voce che fa un altro testo». I suoi film (Nostra signora dei turchi, 1968, Capricci, 1969, Don Giovanni, 1970, Salame, 1972 e Un Amieto di meno, 1974) oscillano tra il coinvolgimento autobiografico e l'interpretazione-dissacrazione di testi classici, sulla base di un atteggiamento che mescola lirica e ironia, blasfemia ed esibizione narcisistica, svelamento di sé e occultamento del testo di partenza. La tecnica cinematografica viene assorbita quasi naturalmente e posta sotto controllo dall'autore, che costruisce con estremo rigore ogni film, non lasciando nulla al caso, esplorando al massimo le possibilità combinatorie dei diversi segni. Il suo immaginario cinematografico, che trova il suo habitat naturale nei terreni della cultura liberty simbolista e decadentista, si muove poi a pieno campo mescolando anche elementi magici ed esoterici con motivi grotteschi e ironici e con incursioni nei territori della follia.
Ogni suo film è, come ha ben visto Bruno Torri, «un rito terapeutico, i cui sacerdoti e le cui formule magiche gli sono fornite dalla cultura», che per il suo sperimentalismo «merita una qualificazione più alta di quella che solitamente sottintende il termine sperimentale e invece dovrebbe essere definito di autentica avanguardia, di autentica creatività rivoluzionaria». Il suo cinema è una macchina celibe, che forse oggi può essere utilizzato come fonte privilegiata per illuminare e rappresentare una tappa importante del suo percorso attoriale.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007