Uno scatolone in soffitta, una sorprendente raccolta dimenticata. La figlia di Pietro Tordi, attore, artista, e non solo, ha ritrovato i nastri dove il padre ha inciso grandi versi. Recitati dagli autori.
La cassetta inizia a cigolare nel registratore. Si sentono stridii, vociare confuso e passi che echeggiano quello che potrebbe essere un corridoio. Poi la voce di un uomo che ridacchia. «Bella la vita dell'attore che va a recitare i poeti, eh!» Chi parla è Dario Bellezza. Davanti a lui, c'è Pietro Tordi, di mestiere fa l'attore, mala poesia è la sua passione e per la poesia coltiva un sogno. Realizzare l'Enciclopedia della poesia parlata. Sono i primi anni Ottanta, i registratori sono entrati prepotentemente sul mercato e Tordi gira di casa in casa, di poeta in poeta, e sulle cassette invita gli autori a recitare le proprie poeta Ma H progetto, per qualche ragione, s'interrompa le cassette finiscono è uno scatolone e la storia potrebbe essere destinata all'oblio o al mito, visto che c'è chi ogni tanto la rievoca come una leggenda metropolitana. Finché, in un pomeriggio di qualche mese fa, Alba Tordi, figlia di Pietro, non decide di salire su in soffitta a mettere un po' d'ordine.
«Quando ho visto i nastri non credevo al miei occhi. Mio padre aveva mille progetti, di questo pensavo si fossero perse le tracce».
Più di duecento audiocassette sbucano dalla soffitta. Qualcosa che può rappresentare una miniera d'oro per gli esperti e gli appassionati. E che fa dire alla figlia: «Ascoltare questi nastri è un'esperienza unica, non può essere solo mia».
Ma chi era veramente quest'uomo che fu attore, pittore, scultore e appassionato di poesia e di cui si ricordano soprattutto Il volto e la voce in film straordinari come Divorzio all'italiana?
«Mio, padre era un pazzo. Era nato nel 1906 a Firenze da un uomo più pazzo dì lui: Sìnibaldo Torci, pittore che ambientava le sue tele nel 700 francese. Lo pagavano in anticipo prima di mettersi all'opera, allora stipendiava un tipo perché gli stesse appresso tutto H giorno a ritardargli gli impegni. Quando non ne poteva più, gli allungava altri soldi chiedendogli di andare al bar a farsi un bicchiere e lasciarlo in pace. Capite? Be', mio padre crebbe in quello studio e, siccome amava follemente la poesia, di notte s'infilava m cappuccio, si travestiva da Dante, e usciva nel giardino "francese" per declamare La Divína Commedìa, che conosceva a memoria».
Poi Tordi si spostò ù Roma a studiare all'Accademia arte drammatica Silvio D'amico. Il suo futuro da attore era segnato.
«Recitava o teatro, fece un film come spalla di Renato Rascel, e continuò in guerra».
Alba Tordi ride. «Continuò, sì, non scherzo. Gli diedero una medaglia di bronzo al merito, ma disse che era perché aveva fatto l'attore anche lì, fingendosi coraggioso e spericolato. Comunque tornò sano e salvo e anzi, siccome non aveva riconsegnato le armi, finì a Regina Coelí per qualche giorno. "Ho superato rato la prova degli scalini dei carcere un vero romano" diceva.
E vero romano lo diventò per sempre. Nel dopoguerra decollava infatti definitivamente la sua carriera sui set di innumerevoli film, olti e cento, fino a un'indimenticabile interpretazione in Il Marchese del Grillo. «Intanto faceva il maestro elementare. Mi diceva di tenere il segreto, sennò non lo chiamavano per i film. Insegnava dizione e recitazione ai ragazzini più che formule matematiche, e trovava anche il tempo per l'arte. Come pittore fu molto apprezzato da Argan. E come scultore, si dedicava maniacalmente alle fontane. Diceva "passerò alla storia come Pietro il Fontaniere"».
Ciò non metteva in ombra la passione per la poesia. «Alle sue mostre invitava poeti come la Spaziani e Elio Pecora a leggere i loro versi. E, quando uscirono i registratori, fu preso dal demone dell'Enciclopedia. Inseguiva i principali poeti del tempo, li perseguitava, s'infilava nelle loro case e non li lasciava finché non gli recitavano i versi che chiedeva. A volte è veramente divertentissimo risentirlo». Alba Tordi, vulcanica come il padre, si muove tra i nastri e ne infila uno nel registratore.
È la mattina del 24 novembre 1981, Dario Bellezza appare schivo e rifiuta di leggere le poesie che gli propone Tordi. L'attore insiste, ma il poeta è irremovibile. «Le leggo La Gatta» dice. «Ah, certo, la conosco» fa Tordi. E il poeta incredulo: «Come può conoscerla se non l'ho mai pubblicata?». Silenzio. Bellezza scandisce le parole lentamente. Passa il tempo e passano altri versi, ma Tordi non ha perso la speranza e quando tira fuori di nuovo le poesie che vorrebbe fargli leggere, Bellezza accetta di dare un'occhiata. «Ma sono brutte, sono brutte» ripete, poi esita: «Ah no, be' questa è bella. Questa è proprio bella». La lettura riprende. Toreai gongola. «Ecco» fa la figlia, «li prendeva per sfinimento. Era un rompipalle. Insisteva finché non leggevano quello che aveva scelto lui, perché l'Enciclopedia era in realtà un'antologia e a decadere era il suo gusto».
Un altro nastro, un'altra città. Si sente la cadenza toscana di Mario Luzi, che prima legge poesie eppoi si mette a snocciolare nomi di amici d'infanzia a Firenze, luoghi, alberghi e trattoriole dove mangiare ancora come un tempo. Gli aneddoti sono infiniti. Come i poeti incontrati. Ci sono Caproni, Bassani, Raboni, Sanguineti. E ci sono molte poetesse. C'è Amelia Rossella, figlia dell'antifascista Carlo. C'è Iolanda Insana e c'è Maria Luisa Spaziani. Discussioni teoriche, riflessioni e commenti. II materiale è sconfinato.
«Se qualcuno se ne occupasse.» dice la Tordi. Chissà cosa potrebbe uscirne. Forse anche qualcosa in più rispetto a quell'Enciclopedia sognata. Il progetto, infatti, si esaurì, forse superato da altri degli innumerevoli impegni di Tordi, che negli ultimi anni si dedicò a insegnare dizione e ceramica in un centro per la Terza Età. «Non si fermava mai. E quando entrò in ospedale voleva che io gli assicurassi l'uscita entro due giorni perché aveva da fare. Invece dovette restarci e quando il dottore andò a trovarlo, gli chiese "Allora Tordi, come sta?" "Sto come un gran fregnone" fece lui. Voleva andarsene a tutti i costi, si sentiva in prigione. Noi tornammo a casa la sera e lui finì che se ne andò davvero, da solo, come aveva scritto in uno dei suoi ultimi versi». Perché anche poesie aveva scritta questo incontenibile talento. La sua opera più amata era un florilegio. Trecento terzine, l'ultima delle quali suona cosï: «Fiore del Volo/sento sollevata verso il cielo /Scusate amici me ne vo da solo».
Da Il Venerdì di Repubblica, 3 ottobre 2008