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Orgoglio e pregiudizio, l'occasione di riscoprire i capolavori queer del passato

Al Nuovo Olimpia di Roma uno sguardo su un cinema che troppo spesso ha vissuto nell’ombra. VAI ALLO SPECIALE »
di Roberto Manassero

Daniel Day-Lewis (Daniel Michael Blake Day-Lewis) (67 anni) 29 aprile 1957, Londra (Gran Bretagna) - Toro. Interpreta Johnny nel film di Stephen Frears My Beautiful Laundrette.
giovedì 11 aprile 2024 - Focus

In origine queer era un termine dispregiativo usato per rivolgersi alle persone non etero: «you people», voialtri, come li definiva sprezzante Don Draper, il pubblicitario degli anni ’60 protagonista di Mad Men, rivolgendosi a un collega segretamente omosessuale. Nel corso degli anni ’80, come vent’anni prima la parola nigger per gli attivisti di colore, queer venne trasformato in un termine militante, per rivendicare la non conformità di un’intera comunità. Erano gli anni dell’Aids, dell’affermazione di un intero movimento, della diffusione dei festival a tematica omosessuale (dopo quelli di Atlanta e San Francisco a metà anni ’70, tra il 1986 e 1987 arrivarono quelli di Torino, Milano e Londra) e la parola queer passò a rappresentare la fluidità del genere e della sessualità, sia etero sia gay, e in generale una certa distanza, un punto di vista alternativo, sulla realtà.

Il cinema, in qualche modo, ci era arrivato da tempo, per quanto in forme implicite nella produzione mainstream. Quello che oggi è chiamato con orgoglio “cinema queer”, e che negli ultimi decenni (ma nel caso della Berlinale si può risalire fino al 1980) ha dato vita a una massiccia produzione di film e studi accademici, per diversi decenni ha vissuto nell’ombra, inizialmente timido, poi sempre più sicuro della propria voce e dei propri valori.

È a questo cinema che rende omaggio Orgoglio e Pregiudizio, rassegna dedicata al cinema queer che dal 25 marzo si tiene al Nuovo Olimpia di Roma. Nel programma si passa in rassegna soprattutto la produzione inedita degli ultimi anni (con i primi lavori di Robin Campillo e Céline Sciamma, alcune chicche come Pariah di Dee Rees e un focus sul regista argentino Marco Berger), ma spiccano cinque film del passato che, per citare i curatori Cesare Petrillo e Simone Ghidoni, «hanno fatto da spartiacque e, magari timidamente, talvolta in modo prorompente, hanno messo lo spettatore di fronte a una realtà diversa». Una realtà, aggiungiamo noi, osservata, raccontata e vissuto con una prospettiva altra, fuori norma, per l’appunto queer.

Il mondo del film inglese Victim, diretto da Basil Dearden nel 1961, è ad esempio quello dell’epoca, quando per la legge l’omosessualità era ancora un reato perseguibile, ma la sua trama gialla e la sua tensione lo fa sembrare quasi un lavoro futuribile, proiettato verso un tempo perennemente presente. Protagonista è un avvocato omosessuale, sposato e rispettato, che dopo l’uccisione di un ex amante persegue una banda di ricattatori. Dirk Bogarde incarna l’ambiguità di un uomo integrato ma pronto a essere perseguibile, mostrando così il lato oscuro e paradossale di una società ancora lontano dal definirsi progressista.
 


In foto Audrey Hepburn e Shirley MacLaine in una scena di Quelle due (1962) di William Wyler.

Discorso simile, per un altro film in programma, il celebre Quelle due di William Wyler, uscito nel medesimo anno, con due tra le principali attrici americane dell’epoca, Audrey Hepburn e Shirley MacLaine, nella parte di due maestre di collegio accusate da un’allieva di essere amanti. Se in Victim il ricorso al cinema di genere attenua la carica eversiva dell’operazione, la scelta di ambientare il racconto in ambiente scolastico aumenta l’eco della tragedia e nel passaggio tra la prima versione del film, datata 1936 (e già tratta da una pièce di Lilliam Hellman), e la seconda dei primi anni '60 mostra come i tempi fossero finalmente maturi per parlare apertamente di omosessualità a Hollywood.

Che dire poi, dieci anni dopo, nel 1972, di uno dei capolavori del tempo, Cabaret di Bob Fosse, musical ambientato nella Berlino del 1931, dunque a un passo dall’avvento del nazismo, imbevuto della cultura libera e fluida della città del tempo, tra l’aggressività sessuale di Liza Minnelli, americana che si esibisce in un locale notturno, la compostezza di un insegnante inglese arrivato in città e il fascino di un barone tedesco che flirta con entrambi i personaggi. Tratto dal romanzo breve di Christopher Isherwood "Addio a Berlino", il film è ancora oggi un caposaldo del cinema queer, oltre ogni definizione di genere (anche cinematografico).

Entrambi del 1985 sono infine gli ultimi due titoli in rassegna, Cuori nel deserto di Donna Deitch e My Beautiful Laundrette di Stephen Frears: il primo è uno dei manifesti del cinema lesbico americano, la storia d’amore, ambientata nel 1959, fra una professoressa universitaria di New York arrivata a Reno, Nevada, per ufficializzare il suo divorzio e una giovane ragazza seducente e sicura di sé, avvicinate e poi divise dalla matrigna della ragazza; il secondo, un tempo celebre e oggi un po’ dimenticato (e dunque bravi agli organizzatori) è una delle opere chiave della cosiddette British Renaissance anni ’80, un dramma aggressivo e operaio che in pieno tatcherismo sbatte in faccia a un pezzo di società conservatrice la relazione tra un giovane pachistano e un punk violento, con quest’ultimo interpretato dal giovanissimo Daniel Day-Lewis. Un piccolo film che andò incontro a un grande successo e contribuì ad aprire le porte del cinema mainstream alla produzione indie, e ovviamente a quella queer.


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