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Past Lives, un film bello perché non ha fretta. Perché si prende il tempo necessario

È anche un film sugli amori adolescenti, sulle vite non vissute, sul sapore amaro del rimpianto.
di Giovanni Bogani

Greta Lee (41 anni) 7 marzo 1983, Los Angeles (California - USA) - Pesci. Interpreta Nora nel film di Celine Song Past Lives.
sabato 17 febbraio 2024 - Focus

“Che dici? Lo vado a vedere Past Lives?” mi scrive un amico su Whatsapp. “Sì, vallo a vedere”. “Dici? Perché?”.

E così mi passa davanti agli occhi, il film che ho appena visto anch’io. E gli rispondo. Perché ti fa percepire quante storie fantastiche si nascondono dentro le facce delle persone qualunque. Come quei tre che vedi, all’inizio del film, da lontano, come spiandoli un po’, guardandoli appena. Una donna orientale, un uomo probabilmente dello stesso paese. E un bianco.

Dietro ogni faccia qualunque c’è una storia. Ma che storia, quella che racconta questo film qui. Una grande storia d’amore, una grande storia di rimpianti, una grande storia di destino. E una piccola storia di silenzi, di occasioni mancate, di vite che scorrono, sliding doors che se ne vanno. E alla fine tu dai a quel percorso, a ciò che è stato e a ciò che non è stato, il nome di destino. È un film su tre destini, Past Lives. Ed è un film sull’identità.


In foto un'immagine del film.

Lei, per esempio. Guarda lei. Quella ragazza coreana, con le sopracciglia grandi e il sorriso come una sciabolata. Lei rappresenta una persona diversa, per il ragazzo coreano alla sua destra, e per l’uomo americano alla sua sinistra. Per uno, è una donna che se ne va: che se ne va dalla Corea, da un paese piccolo per le sue ambizioni. Per l’altro, è una donna che è arrivata, è approdata. Che ha posato le ali a New York. Forse per rimanere, chissà. Ma quello che è straordinario, è che il film disegna la stessa donna. Eppure sono due. Siamo tutti, forse, così. Diversi, secondo chi ci guarda. Immensamente diversi. Non per caso lei ha due nomi: Na Young in Corea, ma Nora Moon appena l’aereo atterrerà sul continente americano.

Non gli ho detto tutto questo, al mio amico su WhatsApp. Il resto, l’ho pensato soltanto. E ho continuato a pensare. Mentre il film continuava a scorrermi in testa. Perché in questi giorni tante persone stanno andando a guardarlo? Non ci sono attori famosi, non ci sono effetti speciali, anche la pubblicità non è stata martellante. Non è Barbie, non è Oppenheimer.
Ma è un film illuminato da una grazia speciale.


In foto un'immagine del film.

È bello, Past Lives, per come costruisce l’amore, il sentimento dell’amore, la sensazione di un legame forte che stringe i due protagonisti coreani. Da quando erano bambini, in quelle strade minuscole di una Corea che sembra tanto l’Italia del dopoguerra, o il mondo di Parasite (guarda la video recensione). I parchi pubblici, strane sculture di pietra. Due bambini che giocano. L’immagine semplice, wendersiana, della felicità.

E poi il tempo, stacchi di tempo di dodici anni, aerei che portano via. “Quando lasci qualcosa, guadagni anche qualcosa”, dice la madre della ragazzina coreana, che sta per andare via, nel continente americano. Lasciare, trovare. L’impossibilità di tenere tutto insieme. Il tema del film. I destini. Come quella parola che il film accarezza, dissemina, lascia colare lungo le scene del film: quella parola coreana che vuol dire “provvidenza”, ma anche destino: “In-yun”. Destino d’amore. Un destino che ci porta a incontrarci, dopo innumerevoli vite precedenti. E senza bisogno di credere alla reincarnazione, è semplicemente una possibilità infinitesimale che, dopo un numero enorme di incroci del Dna, due persone si trovino nello stesso luogo, nello stesso momento, e si accorgano l’una dell’altra.

Destini che si consumano, dolorosi, ferite interiori brucianti, impercettibili agli altri. Mentre guardi il film, hai la netta sensazione che se incrociassi uno qualunque dei tre protagonisti, per strada o in metropolitana, non ti accorgeresti di niente.
È bello, il film, perché mette in scena una New York inedita, non alleniana e non scorsesiana, non struggente e malinconica, niente foglie su Central Park, e neanche notti buie, luride e feroci. È una New York piovosa, bigia, malinconica come la Bretagna d’inverno, o come Stoccolma nei film tratti da Stieg Larsson.
È bello perché parla della caduta delle illusioni. Lei vuole vincere il Nobel, poi – dodici anni dopo – vuole vincere il Pulitzer. Poi il Tony Award. Capisce che, probabilmente, non lo vincerà. Ma non è quello che conta. Vincere un proprio posto nel mondo è già qualcosa di importante, e lei lo ha capito.
 


È bello perché riesce a raccontare così bene, nel segmento ambientato negli anni dieci del nostro secolo, la difficoltà e l’emozione delle relazioni a distanza, via Skype. L’improvvisa vicinanza fra continenti che le videochiamate hanno regalato. E, insieme, la concreta, tangibile distanza che ancora rimane. La nevrosi, la schizofrenia che domina anche i nostri anni: essere vicini, così facilissimamente vicini, ed essere ancora lontani, così impenetrabilmente lontani.

È bello perché mostra uomini che soffrono. L’amico coreano che piange, nel gruppo di ragazzi a Seoul, perché è stato lasciato dalla sua ragazza: piange senza ritegno, come un bambino. E non è che un primo segnale della sofferenza vera dei personaggi maschili: quella dei due protagonisti, che si trovano ad amare la stessa donna. E per rispetto, per senso dell’onore, per gentlemen’s attitude, o forse per la vergogna di fare qualcosa di meschino di fronte alla donna che amano, non impediscono all’altro di fare le sue mosse. Il ragazzo coreano frenato da un senso del pudore quasi sacro, e l’ebreo americano liberal, che non può andare contro ai suoi princìpi. Entrambi possono solo attendere che sia lei a scegliere.

È un film bello perché non ha fretta, non ha fretta di fare accadere le cose. Perché si prende il tempo necessario, il tempo necessario a camminare sotto Manhattan Bridge, il tempo necessario a scivolare dal volto di lui al volto di lei, senza tagliare, senza ricorrere al campo/controcampo. Il tempo necessario a percorrere quei metri, quelli che vanno da una casa a un angolo di strada, dove un Uber sta per arrivare. È un film fatto di piani sequenza, un film che respira il respiro dei suoi attori.

Perché questo film sommesso, di una regista al suo esordio, staavendo un successo inatteso, di passaparola? Perché piace sentir parlare della nostra vita, delle nostre paure, del nostro modo di sentire e di amare, anche se nessuno parla in romanesco.

È bello, infine, perché l’amore lo racconta mostrando due persone che stanno nel letto insieme, rannicchiati, con le gambe intrecciate, e non mostrando una scena di sesso, corpi che si avvinghiano, sudore, bagliori e buio. L’amore può essere anche rifugio, nido, tepore, parole.

“Non ho il diritto di essere arrabbiato”, dice lui, anche se sa che quel ragazzo venuto da un altro mondo, venuto da un altro tempo, ha aperto una voragine enorme nell’anima della sua compagna. “Tu rendi la mia vita tanto più grande, e mi chiedo se io faccio lo stesso con te”, le dice, mentre sono insieme nel letto. Non c’è forse miglior modo per dire ti amo.


In foto un'immagine del film.

Il film di Celine Song è sottile, sofisticato, e allo stesso tempo semplice, diretto. Scorre fluido e denso di trasalimenti, di rimpianti, di sguardi al passato e di afflati di futuro come Before Sunset di Richard Linklater – anche lì due mondi, due persone che si ritrovano, e una grande città da attraversare, nella quale perdersi fino a un taxi da prendere – e ricorda, in qualche modo, lo smarrimento e l’oceano di non detti di Lost in Translation di Sofia Coppola: anche quel film perduto nella invalicabile distanza che separa due anime che si riconoscono, e si desiderano.

È anche un film sugli amori adolescenti, sulle vite non vissute, sul sapore amaro del rimpianto. È un film sull’esperienza, di sconvolgimento e di rinascita, del migrare da un paese all’altro, da una lingua all’altra, da una sé da abbandonare come una crisalide e una sé adulta, nella quale abitare.

Ed è un film che senti estremamente sincero. Splendide le performance dei tre attori, Greta Lee – non dimenticheremo il suo volto – Teo Yoo e John Magaro. Lei, che ci fa correre fra i suoi doppi, quando passa dal parlare coreano al parlare inglese, dall’identità coreana a quella “americana”. Lui,
Teo Yoo, che da una parte è l’impacciato, intimidito coreano che riesce a parlare solo poche parole di inglese: ma dall’altra è sontuoso, splendido, nella sua dignità di eroe romantico, che è riuscito a vivere – e praticamente a sacrificare tutto – per il suo amore lontano.

Poi leggi che Celine Song è al suo esordio. E ti si rovescia addosso, come una pioggia, la speranza. Nel cinema, e forse anche nelle sorprese che la vita ti può riservare. Sì, vallo a vedere il film, amico mio.


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