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Occhi blu, un film di citazioni nobili, di atmosfere, e di inquadrature che si fanno notare

Michela Cescon esordisce alla regia con un film ambizioso che si ispira ai modelli 'alti' del cinema d’autore e sceglie di raccontare il meno possibile, di non sottomettersi all’obbligo della chiarezza. Ora in sala.
di Giovanni Bogani

Occhi blu

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Valeria Golino (58 anni) 22 ottobre 1965, Napoli (Italia) - Bilancia. Interpreta Valeria nel film di Michela Cescon Occhi blu.
domenica 11 luglio 2021 - Focus

Occhi blu. Ovvero, un film noir tutto in blu. Blu sono le notti in cui è affondato il film, blu i riflessi sulle pareti, dominanti di colore fredde in tutto il film. Il blu è un colore nobile, spirituale, il più “moderno” dei colori: per gli antichi, era una variante del verde. Cominciò a esistere, ad avere una sua forza, quando nel Medioevo venne associato alla veste della Madonna.

Qui il blu è il colore dello sgomento, del lutto. C’è la morte di una ragazzina di tredici anni, travolta e uccisa da un motociclista. Non la vediamo: è il passato del film, un passato che pesa su ogni minuto della storia. C’è un padre – interpretato da un irriconoscibile Jean-Hugues Anglade – che non se ne dà pace. C’è un commissario con la passione per la musica napoletana, interpretato dal regista Ivano De Matteo. E c’è Valeria Golino tutta vestita di pelle, che va in moto, silenziosa ed enigmatica.

Tutto il film è silenzioso ed enigmatico. Il film d’esordio da regista di Michela Cescon è ambizioso, cerca modelli “alti” del cinema d’autore, e sceglie di raccontare il meno possibile, di non sottomettersi all’obbligo della chiarezza. Ne viene fuori un film di atmosfere, di inquadrature che si fanno notare: Valeria Golino che sale una scala a chiocciola vista dal basso, carrelli che vanno ad isolare lei che scrive, in un palazzo di cristallo, gelido e pieno di riflessi sul vetro, un po’ come tutto il film.

È tutto molto teatrale, molto artificioso, quasi metafisico. Roma diventa una città spettrale, un angolo d’Europa fatto di luci sperdute nella notte. Roma è una mappa, nello studio del commissario, un immenso geroglifico di segni rossi. La figura del labirinto certo era nella mente di Michela Cescon: Roma è un labirinto, qui, fatto di incroci di strade, di binari di tram, binari ferroviari, continue intersezioni nelle quali perdersi. Un po’ come la colonna sonora, affidata alla tromba di Paolo Fresu. Che lacera il silenzio con i suoi labirinti di note, che ricordano la colonna sonora di Miles Davis in Ascensore per il patibolo di Louis Malle. Chissà se a Michela Cescon è passato per la mente.

Così come, probabilmente, le è venuto alla mente Michelangelo Antonioni, quando ha creato quelle composizioni dell’inquadratura, palazzi in mezzo al nulla, architetture nude e prepotenti nelle quali il personaggio si perde. A Cescon piacciono le geometrie, i colori, le architetture. E le citazioni. I vetri di un palazzo inquadrati come nei titoli di testa di “Intrigo internazionale” di Hitchcock, per esempio.

La Golino recita, come sempre, attenta a non enfatizzare le frasi, abbassa sempre la voce, abbassa i toni. Sapendo bene che nella vita raramente si declama; e che al cinema è quello che non diciamo che, a volte, conta di più.
 


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