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Il prigioniero coreano e la catena dell'ingiustizia che non conosce confine

La politica come strumento, per un’indagine sulla simmetria e la ciclicità nella condanna impartita all’individuo incolpevole. Il film di Kim Ki-duk è ora disponibile in streaming su FAREASTREAM. GUARDALO SUBITO »
di Emanuele Sacchi

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lunedì 21 dicembre 2020 - mymovieslive

Cosa vede Nam Chul-woo, pescatore finito suo malgrado nella rete altrui, quando passeggia per Seoul? I negozi che contengono il luccichio delle merci del Capitale? O le tavole calde che offrono la cucina del Sud, che Nam ha tutta l’aria di preferire a quella del Nord?  

Più probabilmente osserva una parvenza di libertà, che non si identifica necessariamente nel concetto edonista del libero mercato contrapposto in genere ai Paesi del socialismo reale, ma in una forma di espressione del proprio io irraggiungibile in ogni caso, tanto al di sopra che al di sotto del 38° parallelo che divide in due la Corea. A una parossistica gerarchia di regime, evidenziata dai ritratti dei dittatori esposti con orgoglio nelle stanze del potere, fanno da contraltare la burocrazia e il rancore del Sud, non meno gerarchico e pronto a calpestare i diritti dell’individuo, se questo è funzionale ai propri scopi.  

Forse non si può definire un MacGuffin in senso stretto l’intreccio politico da guerra fredda illustrato in Il prigioniero coreano - disponibile in streaming su FAREASTREAM - ma lo si può inquadrare come semplificazione (ed esemplificazione) di una dicotomia che va oltre il dato storico e che caratterizza l’intera filmografia di Kim Ki-duk.  

Ancora una volta ha infatti luogo la sfida tra la legge dell’uomo e la legge di natura, tra l’artificio della ragione e la verità dell’istinto. A sintetizzarlo sono immagini forti e semplici, quasi grezze nella loro elementare brutalità, come Nam Chul-woo nudo e coperto della sola bandiera nordcoreana o la simmetria, del tutto intercambiabile, tra la sede dell’interrogatorio al Sud e il suo corrispettivo al Nord. Il confine che divide in due lo stesso popolo, e lo obbliga a una guerra che negli anni si è raffreddata ma non ha mai avuto una fine, è solo un’altra imposizione della legge dell’uomo su individualità umiliate e oppresse, con cui Kim da sempre si identifica.  

In questo senso Il prigioniero coreano rappresenta il punto d’arrivo di un discorso avviato dopo la messa in scena della propria crisi creativa e spirituale nel 2011 in Arirang. Da allora Kim, sempre più consapevole del proprio ruolo e delle sue implicazioni, ha provato ad applicare i concetti trainanti della propria poetica all’ambito filosofico-religioso prima (Amen, PietàMoebius) e politico-istituzionale dopo, fino all’allegoria sulla (impossibile) riunificazione delle due Coree di Il prigioniero coreano.  

L’iteratività del calvario di Nam è quella del loop infinito di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, la simmetria da cui è impossibile districarsi è quella di La samaritana o di Pietà. La catena dell’ingiustizia si abbatte sull’individuo, servendosi degli ottusi strumenti messi a disposizione dalle leggi dell’uomo che non lasciano scampo.  

Rispetto a Ferro 3 o Indirizzo sconosciuto le immagini di Kim si sono impoverite, o non hanno più la stessa forza dirompente di un tempo. Forse l’effetto sorpresa è svanito, ma la coerenza che accompagna il cinema di Kim non viene mai meno e ripropone i quesiti insoluti e insolvibili di un tempo sotto altra forma. In un monito che ha tutta l’aria di poter risuonare in eterno, ciclico, perché tale è il calvario dell’uomo.


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