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Le strade del male, storia di una provincia macchiata di colpe

Il film con Tom Holland mette in scena un’interessante spirale di desolazione e fame di giustizia. Disponibile su Netflix. 
di Lucrezia Ceglie, Vincitrice del Premio Scrivere di Cinema

mercoledì 28 ottobre 2020 - Scrivere di Cinema

Le storie che Antonio Campos intreccia in Le strade del male, la storia di Willard (alias Bill Skarsgård), di Arvin (Tom Holland), di Leonora e di Sandy, corrono lungo le strade periferiche e i boschi della provincia americana degli anni ‘50 e ‘60, tra la West Virginia, l’Ohio e il Kentucky, lasciano scie di sangue e vengono a formare una croce dove Dio non si fa uomo e non libera l’uomo dal male, o meglio, gli uomini liberati dal male rimangono maligni come dice Mefistofele nel “Faust” di Goethe. Il Dio tanto invocato e pregato è un dio terribile che chiede in cambio sacrifici spietati, un dio che è frutto di una distorsione mentale del bene nel male, della salvezza nella punizione, distorsione dettata da fanatismo e fondamentalismo religioso ma anche dall’opportunismo e dall’ignoranza che si annidano nella provincia. 

La provincia è un labirinto i cui percorsi appaiono tutti somiglianti, quasi indistinti, senza una via d’uscita proprio come il male che assedia Arvin sin da quando è bambino, e ogni percorso conduce allo stesso punto, un punto di non ritorno e cioè la legge del taglione, dell’occhio per occhio dente per dente, alla violenza si risponde con altra cruda violenza per non soccombere. 
 

Al di là delle province declinate al plurale nelle loro caratteristiche geografiche e culturali, c’è la provincia come dimensione assoluta condannata ad un immobilismo fatalistico e macchiata da colpe ataviche in cui non si intravede una possibilità di riscatto sociale e morale. 
Lucrezia Ceglie, Vincitrice del Premio Scrivere di Cinema

Lo dimostra la cronaca nera più recente: Willy, il ragazzo ucciso a botte a Colleferro, provincia di Roma; o la vicenda di Ladispoli dove ci si vendica con le botte per un mancato invito ad una festa. È come un vortice, una spirale in cui si perpetua ingiustizia e violenza generate dalla miseria e dalla solitudine, in cui le scelte individuali lottano senza tregua con il destino o il caso, la scelta di Arvin è quella di non pregare più e farsi giustizia da solo nell’unico modo che conosce. 

Una spirale in cui non resta nulla se non desolazione, stanchezza, come suggerisce il finale sostanzialmente aperto e nichilista. Ma la provincia è anche la custode di una purezza e di una fame di giustizia ancestrale che in Arvin convivono paradossalmente col peccato e si manifestano nella tenace volontà di dare una degna sepoltura al suo cagnolino sacrificato dal padre in nome di un dio sordo e indifferente alle sofferenze umane ma soprattutto offeso e crocifisso ancora dall’uomo stesso perché piegato ai suoi meschini fini. 


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