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Marion Cotillard, lady Macbeth di incomparabile bellezza

Volto fragile e denso, persuade Michael Fassbender in Macbeth e guadagna lo status di diva. Al cinema. Vai all'articolo
di Marzia Gandolfi


martedì 5 gennaio 2016 - Celebrities

Marion Cotillard ha la bellezza eterna dei classici. Come un classico è bella in modo indiscutibile, non finisce mai di dire quello che ha da dire, costituisce una ricchezza, esercita una suggestione, si impone come indimenticabile. E ancora proprio come un classico porta su di sé la traccia di chi l'ha preceduta, rievocando la compostezza solenne delle dive del muto che sostituivano col gesto la parola. La ieraticità del suo volto si accorda splendidamente col Macbeth di Justin Kurzel che incontra Shakespeare alla graphic novel e alterna i versi del Bardo a lunghi silenzi, offrendo una chance alla messa in scena e uno spazio agli attori muti nei piani. Le parole si dicono sopra, a lato, altrove, si insinuano nella battaglia, scivolano nelle orecchie, innescano la tragedia, producono coi ralenti e le accelerazioni un furore artificiale e una trance visuale, sollevano la bruma scozzese e affiorano il volto fragile e denso di Marion Cotillard. Volto acceso dagli occhi, precipizi liquidi e blu che infiammano i suoi personaggi magnetici e misteriosi.

Accomodata nei sedili posteriori di un taxxi e nelle superproduzioni di Luc Besson, l'attrice francese passa al volante e brucia il traguardo mascherata da Édith Piaf. Mimetizzata dietro la posa da uccellino muove le labbra in sincrono con le registrazioni d'epoca e incarna una môme tragicamente femminile. La vie en rose segna la nascita mediatica e divistica di Marion Cotillard che canta, piange, urla, grida, ride e si ubriaca dentro un apparato alieno di età e di identità. Nascosta sotto protesi in latex per 'agevolare' l'invecchiamento del suo personaggio, l'attrice vince Golden Globe, Oscar, BAFTA e César per una interpretazione che privilegia l'estroversione, il trucco e la gestualità esagerata all'appeal nudo della presenza.
Non è casuale lo stesso anno l'Oscar nella categoria maschile a Daniel Day-Lewis (Il petroliere) e il César a Mathieu Amalric (Lo scafandro e la farfalla), premi che confermano la predilezione delle giurie per l'imitazione, il mestiere in superficie e le performance istrioniche. Ma alla maniera dei colleghi Marion non ha bisogno di esercizi di travestimento.

Amata in patria e corteggiata da Hollywood, cresce nel cinema medio, dove splende incorrotta, ma è il cinema d'autore a fare di Marion la Cotillard, sommando alla 'dote' naturale la costruzione culturale. Una costruzione che leviga, asciuga, essenzializza. Il volto bianco di Marion Cotillard si fa allora segno con James Gray, autore straordinario e pigmalione sensibile, emergendo dal chiaro-scuro urbano la sua bellezza dolente che avvolge tutta la vita e il mondo circostante. Odissea di una donna cattolica nella New York corrotta degli anni Venti, C'era una volta a New York conferma la traiettoria sobria e magnifica di un regista sottostimato e rivela il segreto interpretativo di Marion Cotillard dentro un piano. Un'inquadratura che stringe e isola il suo ovale puro raggiungendo nel vuoto il massimo di espressività. Disteso nel grado zero dell'espressione si carica paradossalmente di sensi plurimi e imprevedibili, accogliendo le emozioni che la storia, il regista e lo spettatore decidono di depositare sulla sua superficie.

Segno ridi-segnato da Ridley Scott (Un'ottima annata - A Good Year), Michael Mann (Nemico pubblico - Public Enemies), Christopher Nolan (Inception), Steven Soderbergh (Contagion), Woody Allen (Midnight in Paris), Jacques Audiard (Un sapore di ruggine e ossa), Jean-Pierre e Luc Dardenne (Due giorni, una notte), l'attrice decanta nell'immaginario collettivo prima di tutto con il suo viso, pronto a rovesciarci addosso tutta la luce che ha assorbito dal mondo.
Il close-up è la forma di Marion Cotillard. Che corra dietro a un taxi o bussi porta a porta, che corregga un broker londinese o affligga un consorte americano, che addomestichi orche o ripari padri di famiglia à la rue, che canti senza rimorsi o danzi in boa e guanti di raso, che serva ai tavoli o custodisca un Borsalino, che tradisca Bruce Wayne o suggestioni Macbeth, è sempre e solo in primo piano. Nondimeno, vigorosa come un guerriero e frangibile come il vetro, Marion Cotillard aggiunge all'immobilità sacra dell'icona la liquidità dell'attrice e il cambio (fisico) di stato. Vestita di luce e armata solo della sua voce chiara e di occhi mondati nell'acqua del battesimo, Marion può incarnare l'incandescenza di Giovanna d'Arco sul palcoscenico e nel mistero lirico in undici quadri di Arthur Honegger ("Jeanne d'Arc au bûcher") o abitare il film 'freddo' di Michael Mann sullo schermo (Nemico pubblico - Public Enemies), dove interpreta la pulsione morbida di John Dillinger, opponendo alla frontalità dell'azione la (sua) figura di neve, friabile e insieme compatta.

'Pescata' da Tim Burton e 'investita' da Ridley Scott, incrociata da Woody Allen o sognata da Christopher Nolan, innamora (e sposa) Guillaume Canet (Amami se hai il coraggio), strega Owen Wilson (Midnight in Paris), ossessiona DiCaprio (Inception), inebria Russell Crowe (Un'ottima annata - A Good Year) e compensa Matthias Schoenaerts nel film di Jacques Audiard (Un sapore di ruggine e ossa), che amputa la sua bellezza con effetti speciali e un accidente narrativo (un'orca). Quale che sia il suo ruolo la proporzione della Cotillard non è mai dovuta solo a un'armonia di linee ma è legata all'espressione di uno stato d'animo. Nella fisionomia dell'attrice cova una tristezza che non trasforma però mai il suo personaggio in vittima (Due giorni, una notte) e lo risolleva attraverso una determinazione silenziosa (C'era una volta a New York), protesi meccaniche (Un sapore di ruggine e ossa), percorsi di solidarietà (Due giorni, una notte). Pulzella di Francia o operaia belga, Marion Cotillard ha la stoffa della combattente che per Audiard ritrova letteralmente la stazione eretta, che separa l'uomo dall'animale e simbolicamente la volontarietà dalla rinuncia, per i Dardenne il risveglio politico, producendo il possibile in faccia all'ingiustizia.

Lady Macbeth o Lady Dior, dal 2008 è musa della maison francese per cui cambia posa, attitudine e borsetta facendone come lei un classico inossidabile riempito di visioni e magia, conferisce a ogni cosa che tocca un accento impalpabile e irreale eppure tangibile e carnale. Cavaliere dell'Ordre des Arts et des Lettres, ambientalista irriducibile, voce prestata per beneficenza, campagne pubblicitarie o piacere (Franz Ferdinand, Yodelice), Marion Cotillard esprime una grazia da star à l'ancienne. Qualità che impressiona i sensi e si adopera a renderla immortale.

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