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2010 segnali di fumo

Rilettura (di getto) di un anno di cinema.
di Pino Farinotti


lunedì 27 dicembre 2010 - Focus

La fine dell'anno mi ispira una rilettura della stagione. Sentimentale diciamo, senza mediazioni, come il gioco della verità: lo dichiari subito e ti togli le responsabilità. Ti crei una franchigia. Concetti di istinto, il meccanismo delle macchie di Rorshach. Ecco, un titolo come una macchia di Rorshach. Sono stato spesso accusato (fra le tante accuse) di non seguire adeguatamente il cinema che non sia occidentale, di non amarlo. Dico che amo il cinema di altre culture se c'è una "qualità universale", se il film può essere letto fuori da contesti, ma in chiave generale, appunto.
Ho scritto de Lo zio Boonmee che ricorda le vite precedenti. Ecco uno stralcio: "...non è titolo da Palma d'oro, e neppure titolo da futura memoria del cinema. E il regista Apichatpong Weerasethakul non è Kurosawa e neppure Zhang Yimou. Questi sì, quando irruppero, si attestarono fra i maestri del mondo. Raccontavano vicende autoctone ma buone per una lettura universale. Va detto che, pur non essendo all'altezza di una Palma d'oro il film, pure senza impennata universale, racconta una favola suggestiva e con una sua poetica singolare. Magia, surrealismo, mistica, metafora, il buio e la foresta, coi suoi spiriti e le sue creature..."
Senza entusiasmo, ma in qualche modo lo salvavo. Poi ho letto, su una testata di cinema, il confronto fra due recensioni, una beatificava, una distruggeva quel film. Era un gioco interessante, credibile, legittimo. Emergeva l'assoluta discrezionalità riferita al cinema. Un titolo può essere amato oppure odiato, può essere analizzato nei due estremi con competenza e scienza. E gli estremi possono valere allo stesso modo. Cito due "estremi".
Via col vento: è il film dei film, grande romanzo, grande storia, grande produzione, dopo 70 anni non ha perso un punto di vedibilità. Oppure: è un polpettone hollywoodiano, un melò insopportabile, tutto di cartapesta. La corazzata Potëmkin : un monumento del cinema, espressionismo, linguaggio, montaggio, storia, metafore, il sociale, la "scalinata". Oppure: prova a vederlo, quanto resisti? Buono per studiosi e cineforum deserti. E poi cos'ha detto Paolo Villaggio? Lui è uno di noi, che conta.
Insomma ci sta tutto. Tornando allo "zio", scovando nel mio istinto, senza mediazioni e ragionamenti, secondo il meccanismo alla "Rorshach", trovo una noia profonda. Insomma, adesso, fine anno, lo dico. Non farà parte della mia videoteca, non lo vedrò mai più.

Animazione
Altra memoria di getto, legata a quest'anno: la fantasy e l'animazione. Ne ho già parzialmente scritto: "... la stagione riconferma l'attenzione al mercato, legittima, ma davvero aggressiva: il cinema ha voglia di incassi naturalmente, ma troppa. Ecco dunque il numero sproporzionato dei prodotti in quel senso, animazione, effetti speciali, 3D, appunto. Si tratta di un indirizzo quasi soffocante che va a chiudere altre strade. Un segnale esatto e implacabile sta nel box office dell'anno: primo Avatar (che è comunque un grande film in assoluto), secondo Alice in Wonderland, terzo L'era glaciale 3- L'alba dei dinosauri. Tutti fantasy&3D. Lo sforzo artistico, creativo in questo senso può essere inteso come una sorta di pigrizia, o di scarico di responsabilità dal pensiero e dai contenuti, dalla voglia di rappresentare il reale, così complesso e articolato, violento e infelice, con verità impossibili da districare. Così si arriva alla fantasy assordante e rutilante: "Mi applico a quell'eccesso di spettacolo, non ho bisogno di stressarmi alla ricerca di grandi idee e incasso pure tanti soldi."

Overdose
L'animazione è un'autentica overdose. Il concetto "segnali di fumo" del titolo allude, oltre che a segnali visibili, anche al fumo dei contenuti. E per l'animazione, rispetto ai contenti, vale il concetto della fantasy. I trailer ci assediano. In tivù, su facebook, YouTube, sui display dei cellulari, è un bombardamento senza soluzione di continuità. A memoria richiamo titoli suggestivi, prodotti ben fatti e furbeschi, qualità nel genere, Megamind, Cattivissimo me, Toy Story, Shrek, Dragon Trainer, Ga'hoole, Rapunzel, Winx Club, Avengers, Gatchaman, Spyro, Sammy. Ma ce ne sono molti altri. In un anno sono 56. Dai, sono troppi.

Milano
Il 1910-cinema mi richiama... Milano. Da milanese la neotendenza mi piace. La città è certo stata teatro di film, firmati da autori importanti, da De Sica ad Antonioni, ma non c'era continuità, fare un film a Milano era come fare un dispetto a Roma, dove sì, c'era continuità, fin troppa (l'ho detto, scrivo da milanese). E rilevo l'intento del romanissimo Carlo Vanzina che ambienta il suo Ti presento un amico a Milano, fra ritrovi e hotel, facendone una sorta di gemellaggio con Londra: c'è di mezzo la crisi del lavoro, e poi ragazze magnifiche, Raoul Bova il bello e un patinato trasversale che può dare fastidio ai puristi ma fa bene agli occhi. Luca Guadagnino ha "importato" la diva inglese Tilda Swinton per raccontare la Milano dell'alta borghesia, magari un po' stereotipata, della città, nel suo Io sono l'amore. Nell'ottimo Happy Family, Salvatores mostra un'estetica di Milano, dal basso, pulita e solenne, facendola sembrare quasi una città dell'impero. Il milanese Silvio Soldini firma Cosa voglio di più, storia di giovani, lui e lei di estrazione diversa, Milano centro e Milano periferia. E poi Michele Placido, col suo Vallanzasca. Non mi seduce l'argomento, ma trattasi di autore importante che fa lavorare Milano.
E poi abbiamo Cataldo Baglio, Giovanni Storti e Giacomo Poretti, milanesi acquisiti, magari da lontano, come Baglio da Palermo. In questi giorni sono nelle sale con La banda dei babbi natale. Siamo fra Milano e Lugano.

Qualità
L'ultima memoria e selezione, che estraggo come immagine, aria, sensazione e suono buoni, è finalmente una bella qualità italiana. Un film non di paese ma dal respiro lungo. Trattasi di Noi credevamo, di Mario Martone che rilegge il Risorgimento secondo canoni diversi.
"...è un film di contro-epica che finisce per essere epico. È certo potente, saltuariamente grande, non perfetto, perché nessun film lo è. Rifugge, e non è piccolo merito, dai canoni italiani. La genetica teatrale del regista lo porta a dare il meglio nel kammerspiel, nello spazio stretto e scuro della prigione, dove i carbonari si svelano nell'intimo e nella sofferenza. Forse si spiega e si parla troppo ma c'è il soccorso della passione. E comunque una ventina di minuti, dei 170, potevano essere stralciati. Ribadisco il concetto della non italianità e della potenza. Non ci siamo più abituati e meno male per questo promemoria. Da tempo rilevo qualche segnale italiano, quasi sempre piccolo, che per speranza e passione cerco di rilanciare come auspicio. Martone ha tradotto l'auspicio. Il regista non è un gigante, li abbiamo conosciuti, e Noi credevamo non è un'opera generale, le abbiamo viste, ma qui c'è più di una promessa...."

Il richiamo, la terapia, l'anno, finiscono qui. Le tavole di Rorshach vengono riposte. Col 2011 ricomincia il lavoro. Per la prossima stagione: speriamo.

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