di Paola Casella
Fra gli interpreti italiani della sua generazione Pierfrancesco Favino è il più internazionale: ha lavorato con Ron Howard in Angeli e demoni e Rush, con Spike Lee in Miracolo a Sant'Anna, con Shawn Levy in Una notte al museo ed Andrew Adamson ne Le cronache di Narnia, e ora è Niccolò Polo, il padre di Marco, nella serie americana Marco Polo creata da John Fusco in streaming su Netflix.
Non è solo merito della sua dimestichezza con la lingua inglese e della sua capacità di lavorare secondo i ritmi e la mentalità anglosassone, ma anche dell'autorevolezza con cui Favino affronta ogni interpretazione, senza alcun atteggiamento di sudditanza nei confronti anche della produzione più imponente.
Pierfrancesco Favino è imponente anche fisicamente, e non si può parlare della sua carriera a prescindere dalla sua fisicità: importante, sensuale, mediterranea.
Favino ha sempre avuto l'intelligenza di usare la sua fisicità per dare corpo, letteralmente, alle sue caratterizzazioni, diventando uno dei pochi attori italiani contemporanei in grado di usare ogni parte della propria anatomia per costruire l'identità specifica di ciascun personaggio.
La sua gravitas, derivante dal metro e 85 di altezza e dalla corporatura robusta, si è trasformata di volta in volta in goffa tenerezza (Cosa voglio di più, ma anche Romanzo di una strage, dov'era un indimenticabile anarchico Pinelli), pesantezza esistenziale (Senza nessuna pietà), minaccia incombente (ACAB), prodezza atletica (Gino Bartali - L'intramontabile, Rush, dov'era Clay Regazzoni), o maestosità storica (Niccolò Polo in Marco Polo).