writer58
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mercoledì 23 ottobre 2019
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l'età dell'oro...
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A differenza di molti film che si ispirano a storie "vere", ripercorrendone i punti salienti, gli snodi, gli sviluppi, le dinamiche tra i personaggi e che c'informano, mediante le didascalie finali, sul destino dei protagonisti, la proposta di Tarantino rimodella il passato, liberandosi dalla necessità di seguirne l'evoluzione e gli esiti, in un gioco narrativo che restituisce al cinema la sua natura di arte trasformativa, di linguaggio liberato dalla dittatura dei fatti. Così come non ci si aspetta che un sogno ricalchi fedelmente la realtà della veglia, ma anzi dispone di immagini peculiari che devono essere decodificate per ricostruire la catena di significati, così il linguaggio del cinema assume pregnanza nel momento in cui si discosta dal flusso concreto degli eventi per costruire nuove associazioni e nuove storie.
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A differenza di molti film che si ispirano a storie "vere", ripercorrendone i punti salienti, gli snodi, gli sviluppi, le dinamiche tra i personaggi e che c'informano, mediante le didascalie finali, sul destino dei protagonisti, la proposta di Tarantino rimodella il passato, liberandosi dalla necessità di seguirne l'evoluzione e gli esiti, in un gioco narrativo che restituisce al cinema la sua natura di arte trasformativa, di linguaggio liberato dalla dittatura dei fatti. Così come non ci si aspetta che un sogno ricalchi fedelmente la realtà della veglia, ma anzi dispone di immagini peculiari che devono essere decodificate per ricostruire la catena di significati, così il linguaggio del cinema assume pregnanza nel momento in cui si discosta dal flusso concreto degli eventi per costruire nuove associazioni e nuove storie.
"C'era una volta a Hollywood" compie precisamente tale operazione: rivisita un periodo particolare del cinema USA, con un approccio insieme disincantato e nostalgico, disegna due figure che rappresentano archetipi dell'industria cinematografica - l'attore di film western di serie b in declino; il suo stuntman e guardia del corpo che vive in una roulotte-, li inserisce all'interno di un panorama sociale ben preciso- le dimore di Beverly Hills che ospitavano le stelle di Hollywood, Rick Dalton, interpretato da Di Caprio, è il vicino di casa di Polanski e Sharon Tate-, amalgama tutti questi elementi in una costruzione ibrida, che oscilla tra il drammatico e l'umoristico.
Rick Dalton è un attore che sente di essere ormai sul viale del tramonto Specializzato in ruoli di "cattivo" in film western di scarsa qualità, si rende conto di essere fuori dai giochi e cerca di placare la sua angoscia bevendo più di quanto dovrebbe. Cliff Booth (interpretato da un eccellente Brad Pitt) è la controfigura di Rick, nonchè suo amico, autista e guardia del corpo. Vive alla giornata insieme al suo cane, è dotato di un suo personale codice morale. Intorno ai due protagonisti, un insieme di personaggi di rilievo: Sharon Tate (interpretata da una brava Margot Robbie), i mitici Bruce Lee (Mike Moh) e Steve McQueen (Demian Lewis), il grande Al Pacino in un ruolo minore, i membri della banda Manson. Un grande cast che disegna il ritratto di un'epoca (il '69 ad Hollywood) che ha assunto nel tempo sfumature leggendarie.
L'opera di Tarantino si distacca per alcuni aspetti dal suo repertorio precedente: è un lavoro più meditativo, meno pulp (tranne che nelle sequenze finali),con sfumature malinconiche tipiche di chi si accosta a un mito della sua fanciullezza. Allo stesso tempo, però, ci sono elementi di continuità con altre proposte del maestro: la coesistenza di humour e thriller, il cinema che reinventa la storia (come in Bastardi senza Gloria), l'esplosione di una violenza catartica.
"C'era una volta a Hollywood" rappresenta un omaggio al cinema, un atto di amore nei confronti delle sue potenzialità affabulatorie. Già dal titolo, che ricorda il capolavoro di Sergio Leone e, in generale, il repertorio delle favole. Un ottimo film, dopo la doppia incursione di Tarantino nel genere western. Un film che non concede a Manson e ai suoi accoliti nessuna vittoria postuma. Ad uscire vittoriosa è la capacità di scomporre la realtà e ricomporla in nuovi insiemi, come si diceva in premessa. Perché questa è l'essenza del buon cinema.
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enrico_delorenzi
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mercoledì 18 settembre 2019
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una poesia d'amore per il cinema
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Tarantino sfrutta il suo nono (e sembra penultimo) film per scrivere una sceneggiatura che di fatto è una poesia rivolta al suo più grande amore, il cinema. In particolar modo quel cinema che tante volte ha dichiarato di apprezzare, ossia quello degli anni '60 e '70, compreso quello italiano che viene omaggiato in "C'era una volta a Hollywood" con il dovuto rispetto.
Così ecco che attraverso la sua coppia di protagonisti, interpretati da due eccezionali Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, Tarantino illustra i diversi modi di vivere, lavorare, decollare e cadere nella più celebre fabbrica dei sogni, Hollywood.
Il film offre due narrazioni separate, destinate ovviamente a incrociarsi.
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Tarantino sfrutta il suo nono (e sembra penultimo) film per scrivere una sceneggiatura che di fatto è una poesia rivolta al suo più grande amore, il cinema. In particolar modo quel cinema che tante volte ha dichiarato di apprezzare, ossia quello degli anni '60 e '70, compreso quello italiano che viene omaggiato in "C'era una volta a Hollywood" con il dovuto rispetto.
Così ecco che attraverso la sua coppia di protagonisti, interpretati da due eccezionali Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, Tarantino illustra i diversi modi di vivere, lavorare, decollare e cadere nella più celebre fabbrica dei sogni, Hollywood.
Il film offre due narrazioni separate, destinate ovviamente a incrociarsi.
La prima è quella dell’attore-cowboy in decadenza Rick Dalton (DiCaprio) e del suo stuntman Cliff Booth (Pitt): mentre Rick ha una casa lussuosa sulle colline di Hollywood, Cliff vive in una roulotte con il suo cane Brandy; Rick però offre uno scudo a Cliff per difenderlo dal proprio passato con la legge (che sia stato accusato ingiustamente o meno, non ci è dato di saperlo, ma sembra proprio di sì) e questo bisogno reciproco rende la loro amicizia un legame estremamente saldo capace di superare ogni avversità professionale e forse anche qualche invidia.
La seconda storia parallela è invece un episodio di cronaca ben noto: la casa accanto a quella di Rick Dalton è stata infatti recentemente acquistata dall'attrice Sharon Tate (Margot Robbie) e da suo marito, il regista Roman Polanski (per coloro che conoscono la loro storia, quell'indirizzo era 10050 Cielo Drive, il cui cartello stradale viene chiaramente inquadrato nel film). Il 9 agosto 1969, tre seguaci della setta di Charles Manson entrarono nella proprietà e uccisero brutalmente tutti i suoi occupanti: Jay Sebring, Wojciech Frykowski, Abigail Folger e Sharon Tate, che all'epoca era incinta di otto mesi.
Il regista imposta il suo film sviluppandolo nei mesi precedenti il crimine, lasciando che le due storie proseguano parallele e cogliendo nel frattempo l’occasione per illustrare la sua visione della Hollywood dell’epoca, per poi incrociare improvvisamente le due trame nel canonico tarantiniano bagno di sangue finale.
Capolavoro, dunque? In realtà non del tutto…
Ciò che manca in questo film è quel ritmo e quei plot twist che hanno sempre caratterizzato i film precedenti di Tarantino. Sembra quasi che il regista sia stato così preso da coccolarsi nel suo stile cinematografico e nel dipingere il suo quadro, da perdere un po’ di vista ciò che realmente ha fatto funzionare i suoi film migliori e farli apprezzare al grande pubblico. Il risultato è un film che, sebbene godibile, appare rivolto a un pubblico cinefilo un po’ troppo di nicchia e lascia al termine della visione un amaro sapore di occasione mancata.
Non può rimanere deluso invece chi ha sempre apprezzato le colonne sonore scelte da Tarantino. Anche in questo frangente, le musiche scelte sono semplicemente superlative.
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[+] il corso degli eventi e la dimensione cinema
(di antonio montefalcone)
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nino pellino
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domenica 22 settembre 2019
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non mi ha coinvolto
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Parte della critica si è dimostrata entusiasta di questo film ed anche il successo che esso sta riscuotendo ai botteghini dei Cinema è considerevole. Per quanto mi sia sforzato di capire il perché di tanto consenso, ancora adesso non me lo so spiegare. Una cosa è certa: il film non mi ha colpito. Difatti l'ho trovato troppo prolisso e monotono durante il primo tempo, mentre le scene di azione e di violenza del secondo tempo, questa volta non hanno fatto centro nel mio personale coinvolgimento. Anche lo sguardo romantico che il regista dimostra di avere nei confronti del mondo dello spettacolo e del Cinema dell'America di fine anni '60 e la relativa ironia e parodia sul facile successo e conseguente ricchezza di coloro che sono stati in grado di raggiungere certi ambiti traguardi, mi ha trasmesso un non so che di prevedibilmente scialbo, nonostante che gli attori Leonardo Di Caprio e Brad Pitt abbiano cercato di dare il massimo contributo con la loro grande esperienza recitativa.
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Parte della critica si è dimostrata entusiasta di questo film ed anche il successo che esso sta riscuotendo ai botteghini dei Cinema è considerevole. Per quanto mi sia sforzato di capire il perché di tanto consenso, ancora adesso non me lo so spiegare. Una cosa è certa: il film non mi ha colpito. Difatti l'ho trovato troppo prolisso e monotono durante il primo tempo, mentre le scene di azione e di violenza del secondo tempo, questa volta non hanno fatto centro nel mio personale coinvolgimento. Anche lo sguardo romantico che il regista dimostra di avere nei confronti del mondo dello spettacolo e del Cinema dell'America di fine anni '60 e la relativa ironia e parodia sul facile successo e conseguente ricchezza di coloro che sono stati in grado di raggiungere certi ambiti traguardi, mi ha trasmesso un non so che di prevedibilmente scialbo, nonostante che gli attori Leonardo Di Caprio e Brad Pitt abbiano cercato di dare il massimo contributo con la loro grande esperienza recitativa. Di sicuro mi sento di sentenziare che questo film dopo averlo visto una volta, assolutamente non desidero mai più rivederlo. Non mi ha coinvolto.
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intothewild4ever
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giovedì 19 settembre 2019
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c'era una volta...tarantino
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Da quando vado al cinema a vedere i film di Tarantino, ovvero dai tempi di Kill Bill, questa è stata la prima volta in cui alla fine della proiezione non c'è stato il solito applauso spontaneo da parte del pubblico occupante la sala.
Il nono e penultimo (a suo dire) film di Tarantino, è incredibilmente, qualitativamente e spettacolarmente parlando, distante da quanto prodotto sin'ora da Quentin. Dove sono le mitiche scene Quentiniane da cardiopalma? Dove sono le colonne sonore che fanno da spalla alle scene più memorabili? Dov'è quella trama travolgente che ti incolla alla poltrona fino all'ultimo secondo del film? E persino, dove sono quei dialoghi da mandare a memoria per la loro originalità?
C'era una volta.
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Da quando vado al cinema a vedere i film di Tarantino, ovvero dai tempi di Kill Bill, questa è stata la prima volta in cui alla fine della proiezione non c'è stato il solito applauso spontaneo da parte del pubblico occupante la sala.
Il nono e penultimo (a suo dire) film di Tarantino, è incredibilmente, qualitativamente e spettacolarmente parlando, distante da quanto prodotto sin'ora da Quentin. Dove sono le mitiche scene Quentiniane da cardiopalma? Dove sono le colonne sonore che fanno da spalla alle scene più memorabili? Dov'è quella trama travolgente che ti incolla alla poltrona fino all'ultimo secondo del film? E persino, dove sono quei dialoghi da mandare a memoria per la loro originalità?
C'era una volta...a Hollywood non sembrerebbe nemmeno essere un film di Tarantino, se non fosse per le infinite citazioni alle serie televisive Americane anni 60-70, agli omaggi a tanti attori iconici come Mc Quinn, Bruce Lee o alle vicende di Sharon Tate e Roman Polański.
Nulla da eccepire sugli ottimi Di Caprio, Pitt e Margot Robbie, nulla da eccepire sulle indiscusse capacità di Tarantino di saper comunque inscenare una sceneggiatura difficile da amalgamare (se non sei Quentin Tarantino)... ma del vero Tarantino, in questo film, si è visto ben poco; persino il tema della vendetta, a lui tanto caro ed onnipresente nei suoi film, occupa a malapena gli ultimi dieci minuti del film ed in maniera indiretta, tentando ancora una volta riscrivere la storia, cambiando gli esiti di vicende ben note.
In questo film Tarantino ci ha forse voluto raccontare di quella Hollywood anni 70-80 che non c'è più, dell'effimera, ipocrita (ed unilaterale) amicizia tra un attore in declino che vive nel lusso, ed uno stuntman che ha legato la propria carriera a quella del presunto amico, ma che vive nella miseria e nell'indifferenza del divo che, com'è giusto che sia, vive solo per se stesso.
Troppo poco per uno come Tarantino.
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carloalberto
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martedì 24 settembre 2019
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noioso-deludente-disturbante gioco di prestigio
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Come un buon prestigiatore Tarantino allestisce il classico spettacolo del gioco degli specchi grazie all’abusato marchingegno del film girato sui film, che genera molteplici immagini caleidoscopiche che si riflettono l’una nell’altra, rinviando, nella fattispecie, dal Di Caprio attore al Di Caprio che interpreta un attore di telefilm popolari, che a sua volta interpreta il ruolo del cattivo nei western della Hollywood degli anni ’60, che a loro volta si rispecchiavano negli spaghetti-western di Corbucci e di Leone in Italia. Pitt interpretando la controfigura di Di Caprio, lo stuntman amico-lacchè inseparabile che vive una vita miserrima ma forse più divertente della sua, duplica l’immagine del protagonista nella vita e sul set, moltiplicando l’effetto all’infinito.
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Come un buon prestigiatore Tarantino allestisce il classico spettacolo del gioco degli specchi grazie all’abusato marchingegno del film girato sui film, che genera molteplici immagini caleidoscopiche che si riflettono l’una nell’altra, rinviando, nella fattispecie, dal Di Caprio attore al Di Caprio che interpreta un attore di telefilm popolari, che a sua volta interpreta il ruolo del cattivo nei western della Hollywood degli anni ’60, che a loro volta si rispecchiavano negli spaghetti-western di Corbucci e di Leone in Italia. Pitt interpretando la controfigura di Di Caprio, lo stuntman amico-lacchè inseparabile che vive una vita miserrima ma forse più divertente della sua, duplica l’immagine del protagonista nella vita e sul set, moltiplicando l’effetto all’infinito. L’installazione di un ultimo specchio, rappresentato dalla tragica storia di cronaca nera che coinvolse Sharon Tate, dovrebbe coinvolgere, quale unico elemento realistico della pellicola, lo spettatore in sala, conducendolo ipnoticamente in una dimensione temporale parallela ove il protagonista ed il personaggio si fondono in un finale catartico. Basta un cammeo di Al Pacino, il duo protagonista Pitt-Di Caprio e la firma di Tarantino per realizzare un prodotto commercialmente valido e artisticamente pretenzioso da presentare alla Mostra del cinema di Venezia? Ovviamente la risposta è si. Poi tutto segue di routine. Il battage pubblicitario gratuito fatto da interviste televisive compiacenti a questo o a quell’attore e dalle retrospettive sull’autore mandate in onda sui canali nazionali la settimana prima dell’uscita nelle sale, farà il resto. C’era una volta a Hollywood ha il merito di far riflette su cosa sia diventata oggi Hollywood: la più potente macchina dello spettacolo globalizzato. Quale era la necessità artistica di fare gossip sulla vita privata di Polanski e di tirare in ballo la tragica fine di Sharon Tate? Nessuna. E’ stata una scelta cinica e di cattivo gusto, con la quale, tuttavia, il maestro Tarantino ha dimostrato di essere molto simile a uno dei suoi personaggi trash, lasciandosi coinvolgere nel suo stesso gioco di rimandi e di rinvii, così che il cinismo del prestigiatore-regista si riflette nel cinismo del bounty killer e così via. Il gioco di prestigio è riuscito a metà. Lo spettacolo esteticamente compiuto rimane sulla scena. L’ultimo specchio ha prodotto l’effetto opposto a quello sperato perché lo spettatore non si può rendere complice di un’operazione immorale e disturbante e ne resta distaccato. Alla fine rimane la sensazione di squallore e la consapevolezza di essersi annoiati per più di due ore, irretiti consumatori dell’ennesimo prodotto pseudoartistico sfornato da quella formidabile industria dell’intrattenimento che è oggi Hollywood.
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[+] deludente, noioso, senza una vera trama
(di jayan)
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felicity
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lunedì 3 febbraio 2020
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potrebbe essere il capolavoro di tarantino
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C’era una volta a…Hollywood è un film che presta il suo fianco ad una serie di analisi quasi infinite.
Visto con un piglio superficiale, potrebbe anche non piacere. Soprattutto se ci si aspetta il classico film tarantiniano, carico di sangue, botte, linee temporali sfasate e tutto quello che da sempre ha caratterizzato l’estetica e lo stile di Quentin Tarantino.
Un film completamente disinteressato alla tenuta ritmica complessiva, ma ossessivamente attento a che le molte pillole di grazia attoriale o registica possano dipanarsi con il ritmo che è loro proprio.
Il ritmo del singolo momento è tutto, il ritmo del film nel suo complesso è nulla: ma finché c’è la grazia e la vediamo, fosse anche solo Pitt che salta di tetto in tetto o consegna le chiavi della macchina valletto messicano, quella frattura scompare.
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C’era una volta a…Hollywood è un film che presta il suo fianco ad una serie di analisi quasi infinite.
Visto con un piglio superficiale, potrebbe anche non piacere. Soprattutto se ci si aspetta il classico film tarantiniano, carico di sangue, botte, linee temporali sfasate e tutto quello che da sempre ha caratterizzato l’estetica e lo stile di Quentin Tarantino.
Un film completamente disinteressato alla tenuta ritmica complessiva, ma ossessivamente attento a che le molte pillole di grazia attoriale o registica possano dipanarsi con il ritmo che è loro proprio.
Il ritmo del singolo momento è tutto, il ritmo del film nel suo complesso è nulla: ma finché c’è la grazia e la vediamo, fosse anche solo Pitt che salta di tetto in tetto o consegna le chiavi della macchina valletto messicano, quella frattura scompare.
Cinema e metacinema. Mai come stavolta il regista di Jackie Brown e Bastardi senza gloria gioca a carte scoperte, separa chirurgicamente il film in due momenti cruciali della narrazione, segue i suoi due protagonisti in un continuo gioco di immersioni, dentro e fuori il set, e di rimandi, con flashback che arrivano quando meno te lo aspetti, per ragionare come forse mai fatto prima sulla natura stessa dell’essere attore.
Gli oltre centosessanta minuti di C’era una volta a…Hollywood sono la risposta alla domanda “Cos’è il cinema per Quentin Tarantino?”.
Un film che è un’aperta dichiarazione di amore a chi il cinema l’ha assaporato in ogni sua forma, da spettatore, da venditore, da creatore.
Potrebbe essere il suo capolavoro.
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marco
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martedì 1 settembre 2020
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un tarantino intimo e maturo come non mai
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Dopo una parabola a mio avviso leggermente discendente, con la sua “nona sinfonia”, Quentin Tarantino torna sulle scene con un film intimo e “maturo” che addirittura si inserisce a metà della mia personalissima classifica della filmografia tarantiniana (dietro a Pulp, Iene, Kill Bill e Bastardi). Non ci sarà la genialità di Pulp Fiction, la poesia di Kill Bill o l’epicità di Bastardi senza gloria ma qui troviamo, oltre alla consueta tracotante “qualità”, anche una profondità davvero inaspettata: una sorta di tenera malinconia sul concetto del “c’era una volta”.
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Dopo una parabola a mio avviso leggermente discendente, con la sua “nona sinfonia”, Quentin Tarantino torna sulle scene con un film intimo e “maturo” che addirittura si inserisce a metà della mia personalissima classifica della filmografia tarantiniana (dietro a Pulp, Iene, Kill Bill e Bastardi). Non ci sarà la genialità di Pulp Fiction, la poesia di Kill Bill o l’epicità di Bastardi senza gloria ma qui troviamo, oltre alla consueta tracotante “qualità”, anche una profondità davvero inaspettata: una sorta di tenera malinconia sul concetto del “c’era una volta”. Un film che poggia evidentemente su ottime interpretazioni (fantastico DiCaprio, superbo Pitt) ma, in definitiva, è la scrittura dei personaggi che consente al regista di scavare bene così a fondo in soggetti resi sullo schermo in modo meno caricatureggiante del solito ma che, al contempo, risultano interessanti proprio perché complessi: diversi ma simili, stelle del firmamento hollywoodiano ma con delle fragilità molto terrene, sempre a caccia di una qualsiasi forma di compiacimento (soprattutto Rick e Sharon). Personaggi che vagano disillusi in un microcosmo fatto di precarietà in cui tutto passa: i fasti del cinema americano, il divismo dei miti hollywoodiani così come l’idealismo delle comunità hippy. La fragilità del divo (ma con essa anche quella dell’individuo in generale) e la puerilità della sua mitizzazione vengono sottolineate (anche ma non solo) dal rapporto che Rick (DiCaprio) ha con Cliff (Pitt), la sua controfigura che è anche suo migliore amico, confidente, consigliere e factotum; verrebbe da dire “una controfigura anche nella vita”, con tutte le accezioni che una tal asserzione porta con sé.
Tutto ciò viene messo in scena da Tarantino con la consueta passione, ancor più palese in questo contesto da lui spesso idolatrato ed evocato, e al quale dimostra di essere fin troppo legato tanto da dare l’impressione che più che un “C’era una volta…”, a Tarantino sarebbe piaciuto che questo film fosse il suo “Amarcord”.
Un film pregevole per molti aspetti (è plausibile pensare che a febbraio possa fare incetta di nomination, ne ipotizzerei almeno sei), maniacale da molti punti di vista, non solo per la regia; come sempre colpisce il montaggio: incalzante dall’inizio (tanto che quando gli attori raccontano una qualunque cosa, le inquadrature vengono spesso interrotte da inserti visivi a supporto) ma che concede anche di “riprendere fiato” con deliziosi piani sequenza. Ma tra i punti di forza v’è anche un’ambientazione rigorosissima che ci riporta inequivocabilmente nella Hollywood di fine anni ’60 tanto da far risultare quasi superflue le sovraimpressioni con i riferimenti temporali e una sceneggiatura ben equilibrata che stride un po’ solo verso il finale prima del pregevole epilogo “alla Tarantino”.
C'era una volta a... Hollywood rimarrà uno di quei film di Tarantino che vedrò e rivedrò, e un po’ rattrista pensare che, stando a ciò che ci dice lui, manchi solo un film prima che la sua macchina da presa venga appesa al chiodo. Ogni buon film di un regista accende il desiderio per il successivo, figuriamoci quando questo viene riferito a Quentin Tarantino.
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samuelemei
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sabato 12 ottobre 2019
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un "lungo addio" alla città degli angeli
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“Vi racconterò una storia” promette Steve McQueen mentre contempla, non senza rimpianti, la radiosa Sharon Tate che danza a bordo piscina sulle note di “Son of a lovin’ man” dei Buchanan Brothers, immersa nella sfrenata euforia notturna della Playboy Mansion. “C’era una volta… In nessun altro suo film, Quentin Tarantino ci aveva raccontato una storia con tanta nostalgia: un’atmosfera di velata melanconia pervade la Los Angeles del 1969, nella sua luce calda e polverosa che accarezza giovani ragazze hippie che si tengono per mano nel crepuscolo; nella sfavillante illuminazione dei neon che fendono le prime tenebre, nelle insegne dei cinema che ravvivano ricordi d’infanzia, nell’emarginazione di un drive-in di periferia, in una roulotte parcheggiata nel fango, nel ritmo sincopato delle canzoni trasmesse alla radio per ingannare la solitudine della notte.
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“Vi racconterò una storia” promette Steve McQueen mentre contempla, non senza rimpianti, la radiosa Sharon Tate che danza a bordo piscina sulle note di “Son of a lovin’ man” dei Buchanan Brothers, immersa nella sfrenata euforia notturna della Playboy Mansion. “C’era una volta… In nessun altro suo film, Quentin Tarantino ci aveva raccontato una storia con tanta nostalgia: un’atmosfera di velata melanconia pervade la Los Angeles del 1969, nella sua luce calda e polverosa che accarezza giovani ragazze hippie che si tengono per mano nel crepuscolo; nella sfavillante illuminazione dei neon che fendono le prime tenebre, nelle insegne dei cinema che ravvivano ricordi d’infanzia, nell’emarginazione di un drive-in di periferia, in una roulotte parcheggiata nel fango, nel ritmo sincopato delle canzoni trasmesse alla radio per ingannare la solitudine della notte. Sin dalla prima scena de “Le iene”, il regista di Knoxville ha sempre dimostrato una strepitosa capacità di narrare. Ma nel suo nono film c’è qualcosa di inedito: le storie narrate si frammentano in tessere di un mosaico impazzito, che lo spettatore non sempre riesce a rinsaldare in un disegno ben definito. La struttura diegetica della pellicola risulta sfuggente e spiazzante, disarticolata in arabeschi di un’architettura labirintica, dispersa adagio nel lento fluire di uno sguardo quasi documentaristico, che trova la sua incarnazione cinematografica perfetta nelle lunghe carrellate aeree girate con il dolly. Tuttavia la frantumazione dei piani narrativi si spinge ben oltre Pulp Fiction. Come avviene soltanto nei grandi film sul cinema, le narrazioni si accumulano una sull’altra, sulla striscia sottile che separa la realtà dalla finzione. Tarantino ci propone una raffinata narrazione elevata al quadrato. Non è l’abituale citazionismo dell’autore losangelino, ma una dichiarazione d’amore al linguaggio cinematografico in sé, un messaggio nella bottiglia che ha la limpidezza e il languore testamentario di un addio. La cifra stilistica del film è senza dubbio la dilatazione temporale: il tempo è il vero protagonista, come ci insegna Sergio Leone, del mondo meta-cinematografico di Tarantino. Nella città degli angeli Booth sconfigge i diavoli di Charlie; il cinema sconfigge ancora la Storia, l’illusione la verità. Come in un caleidoscopio, Tarantino propone una summa delle sue manie e ossessioni, riproponendoci filamenti iconici della sua carriera, perle da sgranare con un certo compiacimento narcisistico. Forse “C’era una volta ad…Hollywood” è il vero western sentimentale del regista di Knoxville. Forse è un po’ come l’Amarcord di Fellini, o Roma di Cuaron: una pellicola che vibra di sogni e impressioni melanconiche. Ma forse è anche la più lucida riflessione di Tarantino su un tema che innerva, in filigrana, tutta la sua filmografia: il tema del doppio, della finzione recitativa, dell’uomo in incognito che, inevitabilmente, “non è chi dice di essere”. Non è un caso che il personaggio più riuscito del film sia Cliff Booth, controfigura destinata a vivere nell’ombra “eterna” di un attore in declino. Un attore in declino che si guarda allo specchio alla ricerca di un uomo autentico. In quello specchio ognuno di noi può guardare se stesso, con le proprie fragilità, ambizioni, desideri e rimpianti. Con delicatezza commovente, dunque, Tarantino ha deciso di raccontare la reazione di uomini superati dal tempo, uomini che non riescono adattarsi alla nuova Hollywood, al “nuovo” mondo. Destinati a soccombere (o forse a rinascere), camminano in una notte stellata di fiaba, nel canto ancestrale dei grilli: in quella magia, nel buio utero della sala cinematografica, tutto può accadere. Certo: la vita sarebbe migliore se ognuno avesse un amico come Cliff. Il miglior Tarantino di sempre? Forse... Regia e Brad Pitt sono da Oscar!
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[+] "...un po'' come l''amarcord di fellini"
(di serpina)
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samanta
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domenica 22 settembre 2019
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l'ennesima autocrocefissione ...fallita
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Giustamente Pino Farinotii in un articolo scritto prima che uscisse il film lo ha definito l'ennesima autocrocefissione di Hollywood. E' difficile recensire un film creato da un "mostro" intoccabile (o quasi ...) come Quentin Tarantino di cui , ammetto, non ho visto tutti il film e di cui non sono francamente un patito.
Ma cerchiamo di dimenticare (se possibile) la storia cinematografica di Quentin Tarantino regista e sceneggiatore (nonché produttore) di C'era una volta a ... Hllywood e affrontiamo il film.
Innanzitutto la trama: la storia ambientata nel marzo-agosto del 1969 verte intorno a 2 personaggi minori del cinema: Rick Dalton (Leonardo di Caprio) attore televiso in passato interprete di fortunate serie televisive e qualche film di serie B ma in declino e ridotto sempre al ruolo di cattivo, e del suo Stunt man Cliff Booth (Brad Pitt, che gli fa anche da autista e piccoli lavoretti nella sua villa nella collina di Hollywood.
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Giustamente Pino Farinotii in un articolo scritto prima che uscisse il film lo ha definito l'ennesima autocrocefissione di Hollywood. E' difficile recensire un film creato da un "mostro" intoccabile (o quasi ...) come Quentin Tarantino di cui , ammetto, non ho visto tutti il film e di cui non sono francamente un patito.
Ma cerchiamo di dimenticare (se possibile) la storia cinematografica di Quentin Tarantino regista e sceneggiatore (nonché produttore) di C'era una volta a ... Hllywood e affrontiamo il film.
Innanzitutto la trama: la storia ambientata nel marzo-agosto del 1969 verte intorno a 2 personaggi minori del cinema: Rick Dalton (Leonardo di Caprio) attore televiso in passato interprete di fortunate serie televisive e qualche film di serie B ma in declino e ridotto sempre al ruolo di cattivo, e del suo Stunt man Cliff Booth (Brad Pitt, che gli fa anche da autista e piccoli lavoretti nella sua villa nella collina di Hollywood. Il produttore Marvin Schwarz (Al Pacino) gli fa presente che la sua carriera è chiusa e che gli conviene girare alcuni western Spaghetti in Italia per poi ritornare e ricominciare da capo. Dalton è perplesso anche perchè il fatto che Roman Polannski reduce dal successo di Rosemary's Baby con la sua novella sposa Sharon Tate (Margot Robbie) sia avvenuto ad abitare nella villa adiacente lo riempe di euforia. Comunque poi accetta e va in italia gira 4 film e ritorna nell'agosto del 1969 in USA con una moglie italiana Francesca (Lorenza Izzo), ovviamente Tarantino non ha fatto lo sforzo di evitare la solita macchietta parodistica della moglie italiana. La notte in cui ritorna per la cronaca verranno massacrati da 4 aderenti alla setta di Manson, Sharon Tate incinta ormai a 4 giorni dal parto, 3 suoi amici e un giovane ignaro di passaggio. Il finale è a sorpresa e Tarantino pregò ai giornalisti di non svelarlo, a mio giudizio è un finale semplicemente penoso.
Il film dura 2 ore e 40 minuti come minimo 30 minuti sono di troppo è noioso , con un tono che va dal sarcartico al surreale, con dialoghi spesso senza capo ne coda.
Girano nel film protagonisti del cinema di allora (ovviamente reinterpretati) come Steve McQueen o Connie Stevens, ma l'utilità di alcune scene non si comprendono ad esempio la zuffa tra Bruce Lee e Cliff con l'artista cinese preso in giro ma maniera sciocca, oppure la scena in cui Sharon Tate va a vedersi al cinema il film che aveva girato con Dean Martin The Weching Crew, e lo guarda comportandosi con espressioni da idiota, ma perché prendere in giro una poveretta, che era un'attrice di poco valore salvo l'avvenenza, ma che avrebbe fatto una fine così orribile. Ma non basta, Tarantino per fare il "figo" e far vedere che lui sa tutto, la manda in giro con un vestitino corto biano la stesso con cui si era sposata. Ma la caccia ai rimandi e ai richiami dell'epoca è noiosa, come francamente ci sono lungaggini insopportabili, come appunto la scena di Sharon al cinema o Cliff che ripara l'antenna della TV di Dalton. Il film non fa ridere e neppure piangere non ci sono nudità ma solo la scena di violenza finale, ovviamente una sfilza di parolacce che confondono pure il dialogo, la colonna sonora assordante è composta da canzoni d'epoca. La recitazione di Brad Pitt è buona un pò meno quella di Leonardo di Caprio, assolutamente mediocre quella di Margot Robbie forse perché non è nella sua mise che l'ha lanciata (nuda). In conclusione una delusione, anche se ci sarà la solita peana dell'ennesimo capolavoro, tanto Quentin il risultato lo ha raggiunto, il box office va abbastanza bene. Per mettetemi anche a me la citazione: Sharon Tate aveva appena finito nel maggio in Italia del film Una su 13 con Vittorio Gasmann e Orson Welles in gran forma, sarebbe stato il suo ultimo film.
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stramonio70
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lunedì 23 settembre 2019
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un ulteriore passo indietro per tarantino...
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Prima di cominciare questa mia personale recensione desidero premettere che conosco bene il cinema di Tarantino, avendo visto tutti i suoi film precedenti, pertanto cercherò di essere il più obiettivo possibile. Mi duole dirlo ma questo suo ultimo film non è all'altezza neppure del suo penultimo lavoro (il mediocre "The hateful eight") che già mostrava i primi segni di cedimento di un regista che, seppur amato dal pubblico, ha avuto anche lui i suoi alti e bassi professionali. "C'era una volta... a Hollywood" è sicuramente un film valido come recitazione, regia, scenografia, fotografia... se non fosse che manca di qualcosa di non meno importante: una sceneggiatura decente e dei dialoghi brillanti.
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Prima di cominciare questa mia personale recensione desidero premettere che conosco bene il cinema di Tarantino, avendo visto tutti i suoi film precedenti, pertanto cercherò di essere il più obiettivo possibile. Mi duole dirlo ma questo suo ultimo film non è all'altezza neppure del suo penultimo lavoro (il mediocre "The hateful eight") che già mostrava i primi segni di cedimento di un regista che, seppur amato dal pubblico, ha avuto anche lui i suoi alti e bassi professionali. "C'era una volta... a Hollywood" è sicuramente un film valido come recitazione, regia, scenografia, fotografia... se non fosse che manca di qualcosa di non meno importante: una sceneggiatura decente e dei dialoghi brillanti. Qui non solo siamo lontani da capolavori come "Django unchained", "Bastardi senza gloria" o "Pulp Fiction", ma anche "Jackie Brown", "Le iene" e i due "Kill Bill" hanno dialoghi e scavo psicologico dei personaggi migliori di questa pellicola. Se ad oggi il peggior film di Tarantino rimane "A prova di morte", questo si pone sicuramente al secondo posto. Purtoppo se non si ha una storia valida da raccontare a poco serve un ottimo contesto storico in cui inserirla. Qui tutto gira a vuoto a cominciare dai due personaggi principali che, a parte spostarsi da un posto all'altro, in macchina o in aereo, fanno ben poco nel corso della trama. Anche la colonna sonora, infarcita di brani dell'epoca, finisce presto col risultare ridondante e fastidiosa. Non si capisce poi l'inserimento nella storia del personaggio di Sharon Tate la cui sorte, come tutti sanno, fu ben diversa da quella descritta nel film. Margot Robbie avrà si e no tre o quattro battute in tutto il film e lo stesso vale per molti degli attori secondari (Emile Hirsch, Bruce Dern, Luke Perry, Kurt Russell, ecc...) segno che forse gran parte del cast (Al Pacino a parte) è decisamente sprecato e finalizzato solo a fare cassa. Detto questo concludo dicendo che il film mi ha enormente deluso oltre che annoiato, tuttavia ritengo Tarantino un grande regista e mi auguro che col suo prossimo lavoro riuscirà a rimediare allo scivolone fatto con questa sua opera numero nove. Voto finale : 6-
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