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Il diritto di uccidere, una decisione giuridica ci salverà l'anima?

Gavin Hood dirige Helen Mirren in un film che si interroga sulla questione giuridica, militare e politica del decidere sulla vita e sulla morte delle persone. Al cinema.
di Roy Menarini

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Helen Mirren nei panni del colonnello Katherine Powell in una scena del film Il diritto di uccidere di Gavin Hood. Dal 25 agosto al cinema.
lunedì 29 agosto 2016 - Focus

Quante volte abbiamo dichiarato di voler essere una mosca per poter volare vicino a nostri conoscenti e guardare ciò che fanno gli altri o ascoltare quel che dicono di noi? Con le nuove tecnologie è possibile. Lo dimostra Il diritto di uccidere di Gavin Hood, dove - tra i molti dispositivi visivi in grado di osservare gli avvenimenti in un dato luogo - c'è anche un calabrone meccanico dotato di micro-telecamera che spia da punti di vista imprendibili e quasi onnicomprensivi la riunione segreta di alcuni jihadisti. È solo una delle strategie di visione proposte dal film, insieme alla vista dal drone, quella proveniente da un altro insetto artificiale, e da altri mezzi, poi rimandati in simultanea su diversi schermi digitali in differenti parti del mondo, collegate tra di loro attraverso una conference call dove si decide la sopravvivenza o meno dei bersagli e delle vittime collaterali.

Non è certo la prima volta che il cinema fa suoi alcuni strumenti di rappresentazione della realtà in uso all'armamentario bellico, anzi alcune serie televisive (come 24) e alcuni franchise cinematografici (le avventure di Jason Bourne) ne hanno fatto un territorio di sperimentazione linguistica e di rinnovamento del linguaggio del cinema d'azione.
Roy Menarini

Tuttavia, in Il diritto di uccidere di azione ce n'è poca e, come è stato giustamente sottolineato, il nocciolo drammaturgico del film è claustrofobico, quasi teatrale. Le immagini di quello che potrebbe avvenire e di quello che continua a non avvenire creano una tensione formidabile, di cui Hood è perfettamente consapevole, tanto da limitarsi a usare il potenziale estetico delle immagini "senza autore" di droni e occhi meccanici, e mantenendo la regia a livelli minimali di intervento.


Dal punto di vista filosofico, i dibattiti sulla questione giuridica, militare e politica del decidere sulla vita e sulla morte delle persone (in alcuni casi cittadini degli Stati che stanno preparando una esecuzione mirata), è anche una sfida tra quello che accadrà certamente sganciando un missile e quello che potrebbe succedere in caso contrario - con tutta la retorica bellica delle vittime collaterali volte a evitare ancora maggiori vittime potenziali in futuro, alla base di ogni concetto di "attacco preventivo" e non di repressione successiva alla violenza. Si tratta ovviamente di dibattiti delicati, enormi, su cui da decenni si discute con visioni anche diametralmente opposte.

Certo è che il mondo contemporaneo si è terribilmente complicato, e alla classica diarchia tra Occidente capitalista e Est comunista, osservato da un terzo mondo lontano e incomprensibile, si è sostituito un universo di conflitti regionali e interconnessi tra di loro, dove la mobilità delle cose e delle persone, insieme alle migrazioni quasi bibliche, ci coinvolge anche quando vorremmo chiudere gli occhi.
Roy Menarini

Compito del cinema - ovviamente se e quando lo desidera - è dunque di porsi un problema di linguaggio (integrando, come ha sempre fatto, le nuove modalità di visione impiegate dall'industria tecnologica e bellica) e di comprensione del presente. Hood, ci pare, preferisce coltivare il dubbio morale, lasciando spazio allo spettatore, e mantenendo dignità a tutte le parti in campo. Non sarà una decisione giuridica a salvarci l'anima.


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